Se fossi un consulente della RIAA aggregherei un think tank per lavorare al prossimo problema serio di un’industria che oggi produce flussi finanziari incredibili ma che sta attraversando una fase ormai prolungata (della quale non si scorge il termine) in cui non riesce più a garantirsi sufficienti risorse necessarie per puntellare e perpetuare il suo modello. Un modello, il suo, tradizionalmente basato su grandi artisti che orientano gusti e stili. Un modello, oltre che economico, culturale.
Dalla creazione di star e personaggi-guida l’industria musicale ha sempre tratto due benefici: la formazione di cataloghi che diventano asset durevoli nel tempo e un ruolo di influenzatrice culturale della società. Il secondo beneficio, in particolare, ha una portata tale da averla resa rilevante molto a lungo. Questa rilevanza, che la trasformazione digitale ha diluito negli ultimi tre decenni in cui startupper e influencer hanno sempre maggiori opportunità rispetto ai musicisti di diventare rockstar, è oggi a forte rischio. E la musica dovrebbe agire per recuperare la sua capacità di fare cultura che lo streaming sta minimizzando.
Lo scenario è complesso, in effetti. Oltre 70.000 brani caricati ogni giorno sulle piattaforme sono il risultato naturale dell’assenza di barriere all’ingresso, senza le quali ogni aspirante musicista o “emergente” si trasforma in recording artist. La loro conseguenza naturale, per contro, è una sovrabbondanza di offerta che rende la scoperta della musica del 99,9% di essi prossima all’impossibile. Vale la pena ricordare che – a spanne – a 30 milioni di brani nuovi disponibili in streaming all’anno, corrispondono milioni di nuovi artisti, o creatori, la cui massa critica non solo infoltisce le fila del comparto indie ma lascia intravedere una sempre più marcata sovrapposizione tra creatori e pubblico: già, ci sono strati di utenza e di offerta che coincidono.
A questo percorso, tracciato e consolidato dallo streaming audio “tradizionale” – quello incarnato da DSP come Spotify e YouTube su tutti – da un triennio si è sommata una modalità di consumo “snack” resa celebre da TikTok, i cui successi per l’industria musicale sono prevedibili più o meno come la traiettoria minacciosa di un asteroide. Certo, esiste una pletora di pratiche per far sì che brani entrino nella “rotazione” degli utenti e diventino materia di UGC (user generated content), con annesse royalties che maturano. Ma, come per lo streaming tradizionale, nella stragrande maggioranza dei casi si tratta di una coda lunga formata da una serie di fiammate di notorietà che hanno queste caratteristiche:
- non sono frutto di una vera capacità di influenzare l’algoritmo dell’app cinese;
- sono espressione della celebrità di (porzioni di) canzoni, e non di personaggi;
- riducono la musica a tappezzeria sonora, sostituendo nella coda lunga ciò che la sincronizzazione fa con i formati tradizionali;
- diversamente da quanto accade nella sincronizzazione classica, nell’esperienza dell’artista e dell’utente le porzioni di brano che circolano su Snap, TikTok e Instagram sono centrali e non accessorie.
Dallo streaming non tradizionale è destinata a derivare – così come dagli artisti indipendenti – una quota crescente di contenuti e di ricavi. Ed alterare un modello remunerativo suona, in una logica industriale, insensato. Forse, quindi, occorrerebbe lavorare a qualcosa di parallelo. Le etichette e, in particolare, le major devono capire come mantenere la loro rilevanza culturale nel futuro, considerando che l’enorme produzione quotidiana, mensile e annuale di musica in streaming è statisticamente un fattore di riduzione delle loro quote di mercato (è per lo più il comparto “artist direct” che genera i grandi numeri nell’upload, e non potrebbe essere diversamente). Di più: l’assenza progressiva di hit e di star mortifica il loro tradizionale ruolo di “filtro”, di trend setter, di gestori di un meccanismo-base per la creazione di musica che diventi e domini il mainstream. Negli ultimi anni le etichette hanno trovato sempre più difficile e infrequente lavorare alla creazione di quei pochi e fondamentali “big moments” annuali, quei picchi che determinano il risultato economico e sono così impattanti da riuscire a piantare i semi di una carriera artistica duratura o di una tendenza. Hanno ovviato al tema del risultato economico capitalizzando sulla coda lunga che genera profitti ricorrenti e prevedibili perfino in assenza di grandi successi, mentre la questione della carriera dell’artista, della sua presenza e influenza culturale e della sua forza di orientare il mainstream (per anni un termine usato in accezione negativa, oggi invece un eldorado che si rimpiange) resta irrisolta. Anche i team discografici più nutriti hanno in capo una quantità di emissioni settimanali mostruosa, ed il modo per ripartire le risorse disponibili per seguirle assomiglia oggi più alla creazione di “micro-momenti”, di episodi da impatto settimanale o mensile. L’ecosistema dello streaming vede ormai i DSP preposti alla generazione e al controllo del consumo di musica e le label – data la quantità – occuparsi soprattutto dell’efficacia della distribuzione, che è ciò che premia una coda lunga che funziona bene per loro e male per i creatori.
La metafora della song economy è stata rafforzata e inasprita da TikTok: è il tempo del dominio dei singoli brani, a prescindere dall’artista che li propone e pure dal contesto e dalle circostanze in cui diventano famosi. Di porzioni di brani, economicamente sempre più rilevanti ma tipiche di un utilizzo nuovo, da sottofondo eppure centrale. Con un modello di remunerazione e di licenza e cessione dei diritti che non può più essere equiparato a quello dello streaming tradizionale, e che va ripensato, e con artisti culturalmente marginalizzati in un’equazione che regge sempre meno.
E’ una china preoccupante, perchè alla musica occorrono i fans, quelli che acquistano i biglietti dei concerti e che restano fedeli agli idoli consentendo loro di monetizzare una carriera digitale sempre più frammentata. E se questa è l’era delle nicchie autoreferenziali, della celebrità frammentata in tribù, anche i fans si disgregheranno nel seguire una quantità di “piccoli” artisti-creatori che alimentano quella long tail che stenta a campare e non fa cultura musicale.