Succede a volte di imbattersi in materie calde, che sembrano provenire da mondi lontanissimi e distanti rispetto a quelli in cui la quotidianità di oggi ci immerge, o meglio ci costringe all’immersione: mondi fatti di suoni, odori, colori e sapori che filtrano attraverso la retina abusata di quel righello attraverso il quale ci siamo abituati ad inscatolare la realtà, rendendola maneggevole attraverso la dissoluzione dei suoi caratteri specifici, isolandola in “post” o camuffandola con “filtri” adatti a regolarizzare l’anomalia.
Insomma, “mondi” che sfuggono alle categorie e alle descrizioni fatte di hashtag e claim, perché costituti di una materia diversa rispetto a quella che siamo ormai abituati a digerire, senza eccessiva fatica seppur con conseguenti dolori gastro-intestinali; forse Pasolini la chiamerebbe “poesia”, questa materia fragile e allo stesso tempo dura come il diamante, ed è lecito pensare che, in effetti, di “poesia” ve ne sia eccome nelle canzoni di Beatrice Pucci, schegge impazzite e sottratte alle regole della discografia che, da qualche tempo a questa parte, si stanno incastrando nel cuore di tanti.
Tanti, sì, che non sono ancora abbastanza per quello che la cantautrice ventiquattrenne originaria di Civitavecchia meriterebbe di raccogliere: “Le colline dell’argento”, il primo roboante EP d’esordio dell’artista, ha fatto impazzire gli addetti al settore, sempre più impegnati nella ricerca di qualcosa che sfugga all’anonimato contemporaneo, lasciando che si spendessero e spandessero parole mai del tutto efficaci (almeno, forse, quanto quelle che stiamo utilizzando noi qui) a raccontare la profondità di un’anima sensibile, ben decisa a tutelare la propria musica (e quindi, di conseguenza, anche il proprio pubblico) da tutto ciò che esuli dalla propria visione “estetica” di canzone, specchio di una realtà che Beatrice decodifica anche attraverso la propria musica.
Nella tracklist densa dell’EP d’esordio, Beatrice aveva già disegnato i tratti di un approccio fatto di auto-produzione, “isolamento” creativo supportato da una “telescopica” apertura sulla realtà, sui suoi angoli più refrattari allo “svelamento” e sulle sue più nascoste certezze e incertezze: una profondità capace di sposare la filosofia e la riflessione quasi esistenziale alla ricerca di sonorità uniche, modellate ad immagine e somiglianza di un’idea che, a sua volta, potesse assomigliare fedelmente all’artista stessa, e al suo modo di intendere le cose che la circondano.
“Nero”, brano pubblicato ad inizio di questo mese, ha confermato le sensazioni destate dall’esordio discografico, amplificandole. Ecco perché, con grande piacere, abbiamo deciso di fare qualche domanda a Beatrice.
Beatrice Pucci, giovanissima cantautrice da Civitavecchia, che piacere poter approfondire la tua musica qui sulle nostre pagine. Siamo rimasti molto colpiti dal tuo nuovo singolo “Nero”, che segue la pubblicazione, qualche mese fa, di “Le colline dell’argento”. Ecco, ti chiediamo cosa significhi per te ripartire da un brano come “Nero”, e se esiste un collegamento tra questo e la tua precedente produzione.
Grazie a voi per esservi avvicinati alla mia musica. “Nero” è un brano scritto in un momento di tranquillità e di pausa, quando sai che devi/vuoi proseguire qualcosa ma vuoi prenderti un momento di distacco prima di continuare il percorso. Secondo me sì, esiste un collegamento tra questa e la precedente produzione, sono momenti differenti, ma entrambe sono legate a quei “soundscapes” che portano a immergersi nell’immaginazione.
“Nero” è un brano che parla di profondità, di salite e discese che assomigliano al penetrare in un bosco intricato senza avere la sicurezza di trovare una via d’uscita. Quanto credi sia importante sapersi “smarrire”, e ti è mai capitato di sentirti “persa nel bosco”?
Sì, le salite sono spesso presenti nel mio immaginario e anche in, in un certo senso, la consapevolezza che ci siamo persi o che ci stiamo perdendo ma che è inevitabile.
E mi piace pensare che in questo bosco che per me ha una natura doppia, di smarrimento e nuove scoperte, si possano trovare le parole per continuare a scrivere e trasformarsi nel migliore dei modi.
“Le colline dell’argento” avevano già messo in luce quell’identità che connota anche il tuo ultimo singolo: quanto è importante, in tal senso, il lavoro di “mix”, la fase insomma di “lima” e di finalizzazione che tu curi in prima persona, per dare al suono la dimensione che immagini? Insomma, se dovessi tracciare caratteristiche e confini della tua estetica, quali sarebbero?
Amo lavorare alla parte del mix perché contribuisce tanto alla sensazione finale che arriva alla pancia dell’ascoltatore e poi al cervello. Di base non cerco di seguire un’estetica predefinita, seguo molto il primo istinto che di volta in volta può essere diverso di brano in brano. Ma le cose più importanti penso siano le emozioni e i dettagli, che bisogna saper mettere a fuoco in modo onesto. Proprio perché esistono possibilità illimitate in cui un brano potrebbe essere arrangiato e prodotto credo molto che nella prima idea di scrittura di una canzone siano già contenute tutte le informazioni su come la canzone vorrà essere sviluppata fino alla sua forma finale.
Anche nel tuo disco, in effetti, il tema della ricerca personale e la tutela di uno spazio “intimo” che anela alla condivisione sembrano essere i temi portanti del tuo lavoro: esiste un motivo, secondo te, che ti ha spinto ad avvicinarti alla musica, ad un certo punto della tua vita? Sembra quasi che le canzoni servano a ricordarti quale possa essere la via per ritrovarti, quasi come fossero un “farmaco”…
Penso che la musica sia anche questo, e l’ho scoperto molto più in prima persona di recente, un’esperienza privata e intima che da qualcosa di personale diventa “altro” e può assumere forme inaspettate nella mente degli altri. Non conosco il motivo reale per cui mi sono avvicinata alla musica, forse perché è una forma di espressione che racchiude diverse cose al suo interno oltre al lato musicale in una canzone ci sono anche parole e penso che queste siano l’elemento chiave, perché una frase, che può sembrare random o disconnessa può innescare significati tutti nuovi e nuove idee in una mente.
Gestisci in (quasi) completa autonomia la produzione dei tuoi brani: facci entrare con te nelle tue “stanze”, come ti relazioni al lavoro in studio? Hai dei particolari riti, o momenti durante i quali prediligi metterti al lavoro?
Il miglior momento è quando c’è impulso di fare qualcosa, per il resto del tempo non mi preoccupo troppo anche di oziare o di fare altro, cose non inerenti alla musica o che mi va di fare in quel momento. Non ho riti particolari, ma mi piace tenere pulito il posto dove registro e in generale far sì di non avere distrazioni dal mondo esterno, quindi cerco fare in anticipo le cose che so che devo fare durante la giornata per poi non avere preoccupazioni quando mi siedo a registrare.
Non hai ancora presentato dal vivo, o almeno, così ci pare dando un’occhiata ai tuoi social, il lavoro che hai pubblicato alla fine della scorsa primavera. Come mai? E in generale, credi che potremo vederti presto sul palco, oppure quella della “musica dal vivo” è una dimensione che al momento non ti stuzzica?
Ho avuto inviti e richieste di fare live, ma è una cosa che prendo molto seriamente e che voglio fare con una certa struttura con me. Non sento la necessità di correre ma mi ha fatto molto piacere vedere che c’è stato interesse da questo punto di vista. Comunque la cosa più vicina al live che per ora ho fatto è stata è una live session di “città sospesa” che si può trovare sulla pagina instagram di sei tutto l’indie, è un live chitarra e voce.
Salutiamoci con un consiglio: un libro, o un film, che a suo modo credi si possa ben coniugare con l’ascolto di “Nero”.
Il secondo anello del potere di Carlos Castaneda.