Dopo quel bellissimo disco “Albore” torna Manuel Volpe che questa volta sceglie di mostrare in prima linea il nome del suo “collettivo”: Rhabdomantic Orchestra. Al suo fianco l’incontro e la voce della cantante colombiana Maria Mallol Moya e il risultato, sempre intriso di ricerca e smisurato desiderio di altro, è un disco uscito per la celebre Agogo Records anche in una bella edizione in vinile. Si intitola “Almagre”, una parola araba che richiama il colore rosso, rosso come il sangue che macchia il ma mediterraneo, ponte di drammatiche comunicazioni tra la dannazione e un terra promessa… disco che promette la connessione spirituale e politica con l’uomo strizzando forte l’occhio ai gusti africani e al surrealismo (si veda anche il video di lancio del singolo “Suffer! Suffer!”)… “Almagare” è un lavoro ampio, alto, da non provarci neanche a sintetizzarlo. A Manuel Volpe affidiamo sempre un concetto alto di suono e di scrittura… e lo facciamo senza rischiar troppo di cadere in false speranze.
Nuovo disco per Manuel Volpe che torna dopo “Albore”. Hai abbandonato la città, parlando per allegorie ovviamente, e incontri i popoli della terra. Cos’è cambiato e cosa c’è di nuovo nel tuo modo di vivere la musica?
Non credo di aver abbandonato la città. In “Almagre” ci sono ambientazioni diverse come anche in “Albore”. La vera differenza sta nel declinare i luoghi in una forma meno precisa rispetto al precedente lavoro, direi quasi ideale. Un non-luogo e un non-tempo fatto di varie suggestioni con una bussola puntata da qualche parte in un mediterraneo immaginario.
Tanto “resto del mondo” che si allontana decisamente dal mondo occidentale, industriale… la tua ricerca oggi ha dovuto rispondere a quale bisogno?
L’obiettivo di questo album era quello di cercare una formula per armonizzare accostamenti contrastanti tra generi e suggestioni diverse. Le musiche del mondo sono il punto di partenza ma abbiamo cercato in tutti i modi di non restituire una versione posticcia di musiche che culturalmente non ci appartengono. Con grande rispetto abbiamo studiato la materia per poterla rielaborare secondo la nostra sensibilità in una forma altra.
Dall’Italia invece? Cosa hai preso e in che modo?
Di tipicamente italiano mi piace pensare di aver preso un certa attenzione alla melodia e l’approccio narrativo narrativa dell’orchestrazione che sono tipiche della nostra tradizione musicale (dall’opera alla colonna sonora).
Torni a pubblicare con la Agogo Records. Squadra che vince non si cambia? Come ti leghi a questa label certamente non italiana?
Agogo per Rhabdomantic è la casa perfetta per affinità e attitudine. C’è un bel rapporto di stima e fiducia e nonostante ci siano nomi ben più grandi di noi ci siamo sempre sentiti coccolati.
E parlando di ricerca e di suono digitale, penso che “Siber” sia il momento più onirico di tutto il disco, più psichedelico. Anzi molto si stacca dal resto della produzione o sbaglio?
“Siber” è il risveglio dal sogno e ha la funzione di introduzione a “Rebis”. In realtà devo confessarti che il suono che senti è stato ottenuto manovrando in reverse (Siber-Rebis) delle bobine in folle di un registratore a nastro dove abbiamo inciso gran parte degli strumenti. Il resto sono pedalini, droni ottenuti da synth o organi farfisa quindi ben poco di digitale.