Il Limbo Degli Orecchiabili
In Musicofilia, Oliver Sacks dedica un capitolo a quelli che chiama earworms, che noi a nostra volta definiremmo come tarli nell’orecchio, per indicare quelle melodie, più o meno estese, che ci vengono coercitivamente riproposte dal nostro cervello senza che vengano stimolate da qualsivoglia elemento contestuale. Non importa nemmeno che si tratti di brani musicali di nostro gusto. Non abbiamo controllo su questa modalità randomica di riproduzione mentale. Si tratta di tutte quelle sonorità che in genere liquidiamo come “orecchiabili”. Non abbiamo coraggio di definirle sgradite ma nemmeno potremmo mai dire che ci piacciono. Riconosciamo loro una costruzione abbastanza intelligente da poter catturare l’orecchio e passiamo avanti. O almeno così ci verrebbe da credere. Infatti succede spesso che queste melodie insistenti ci accompagnino poi per ore e alle volte per giorni senza riuscire a liberarci di loro. Nel mio caso, mentre scrivo ho in testa il ritornello di farfalle, di Sangiovanni, che ricorderete da Sanremo e che è presente nel suo nuovo album cadere volare.
Un pezzo ballabile ma che non va oltre il proprio ritornello maledettamente orecchiabile. È poi l’unico brano del genere in mezzo a un piattume di idee liriche e musicali che trova il suo punto più basso negli ululati senza senso di cielo dammi la luna, un singolo dalle immagini superficiali e banali. Gli unici momenti di originalità di questo lavoro sono forse racchiusi nel pezzo sigarette alla menta, un racconto causticamente ironico di amore e tradimento che dopotutto funziona e fa sorridere amaramente. Anche amica mia sembra fare il suo, se non altro perché si discosta dalle sonorità trap e da cantautore moderno (arpeggi lenti di pianoforte e canto sguaiato). Se però si escludono questi due appunti, l’album, vecchio di appena un paio di giorni, finisce già per essere completamente dimenticabile.
Sarebbe però troppo facile imputare questa pochezza al semplice fatto di appartenere a un genere mainstream che si nutre solo di altro, leggermente più vecchio, mainstream. Se ascoltassimo infatti molta musica di consumo uscita negli ultimi anni ci accorgeremmo facilmente di come generalmente ci si ispiri a due correnti principali e cioè a chi canta strascicandosi con malinconia per un paio di minuti alla volta e chi cerca di reinterpretare musica di tendenza importata dagli States (la trap che spopola da noi è il più recente degli esempi) mutuandone il linguaggio più o meno bene a seconda dei casi. Questo è naturalmente un caso ipotetico che non consiglio a nessuno di mettere in pratica ma che ci porta al tema principale di questo articolo: è naturale che si scriva un pezzo a partire da una particella memorabile e che possa avere l’effetto del tarlo di cui ho parlato poco sopra ma è giusto che sia questa la maggiore preoccupazione di chi pubblica musica negli ultimi tempi?
L’orecchiabilità è sicuramente un pregio nei pezzi belli ma una condanna in quelli che non amiamo perché siamo costretti a portarceli dietro terribilmente a lungo. Eppure sembra essere l’unico punto fermo della produzione musicale italiana e non solo. Orde di interpreti che si cimentano con i soliti temi e ripropongono immagini simili in generi che non occupano grandi distanze all’interno di uno stesso spettro. Il problema però è che l’orecchiabilità implica familiarità e limita quindi la ricerca, la sperimentazione e perfino il banale divertimento che procura l’inserimento di melodie estemporanee che non si ripetano in un brano. Motivi che in un’esecuzione sinfonica rischierebbero di nascondersi ma che sarebbero quindi grandemente più preziosi per un ascoltatore che ne rimanesse colpito. Quante frasi alla Vinteuil vi ha regalato la musica che avete ascoltato in radio negli ultimi anni?
Il tarlo non ha una natura positiva o negativa, può affliggerci o deliziarci. È ciò che gli sta attorno, il suo habitat che lo definisce. L’orecchiabilità, però, non si fonda esclusivamente su questo. Prendo in esame un’altra novità di questa settimana e cioè l’album Petali di Simona Molinari. Le capacità tecniche della cantante sono al di là di ogni discussione, è bravissima. I brani che ci propone, però, risultano perlopiù piatti e formulaici. È uno smooth jazz ad alta digeribilità che strizza l’occhio all’ambiente pop con cui fa tanti compromessi. Eppure l’antidoto all’orecchiabilità infine emerge. Come un film, pezzo energico dal testo spensieratamente infarcito di citazioni cinematografiche, per quanto sia pervaso da un certo “già sentito” manifesta un tentativo di distaccarsi dalla dimenticabilità di cui è intrisa la smisurata produzione musicale moderna. Inserisce infatti un brevissimo passaggio estremamente dissonante a metà canzone che cattura l’attenzione e si isola come un momento caratteristico che non si può che ascoltare tornando indietro perché non viene ripetuto più avanti. È una firma, un gioco, un barlume di personalità.
È questo, insomma, ciò che può permetterci di superare l’orecchiabilità. Abbiamo una disperata necessità di una musica all’interno della quale non scompaiano gli artisti. Qualcosa che non venga soppiantato con disarmante semplicità ogni venerdì.