Polistrumentista, cantautrice, producer. Siamo a Roma ma con tantissime derive di geografia e di etnia. Lei è Diana Tejera, artista romana dalla carriera poliedrica che approda a questo nuovo lavoro dal titolo “Libre”, cercato e segnato dalla pandemia e dalle sue restrizioni. Ed è naturale ritrovarci dentro quella follia romantica, nella forma come nel bisogno di “uscire fuori” dagli schemi ma sempre tenendo a mente la ragione dell’arte e delle sue regole. Canta in spagnolo, in inglese e in francese e trova con se la collaborazione di Barbara Eramo (nei brani “Libre” su testo di Prevert, “Una sola palabra” e “En tus ojos”), Bea Sanjust (che insieme a Diana ha curato i testi in inglese, brani psicologici e relazionali, che indagano sulla complessità dell’essere umano), Lamine (“True Lie” e “True Lady”) e poi i musicisti Andrea Di Cesare, Fabio Rondanini e Giampaolo Scatozza.
Urbano, metropolitano, viscoso di sospensioni psichedeliche ma anche tenero di una dolcezza provinciale, romantica… e non mancano quelle aperture lente e dilatate che molto devono ad un certo nuovo folk americano.
La pandemia ha condotto per mano tanti artisti alla scrittura. In che modo è stata fertile per te?
Per me è stata molto fertile poiché credo che la creatività provenga dall’ozio, dallo spazio vuoto. Normalmente siamo sempre sovraccaricati di stimoli, tanto che è difficile trovare lo spazio mentale per immaginare. Il lockdown invece ha rallentato tutto, non ci sono state pressioni esterne e questo per me è stato fondamentale. Si potevano fare le cose con calma, o non fare niente senza sentirsi in colpa. Grazie a questo stato ho avuto la possibilità di pensare molto prima e di comporre naturalmente poi seguendo il desiderio e il divertimento.
La solitudine e quindi la mancanza di libertà, alla fin fine hanno determinato anche il suono di questo disco?
Certamente. Infatti è un disco che ho prodotto da sola. Non potendo avvalermi di altri musicisti ho suonato tutto io, anche la batteria elettronica comprata proprio in quel periodo. Questo ha dato sicuramente un suono diverso a questo lavoro. Non ho potuto inserire archi o strumenti a fiato ma sono andata alla ricerca di suoni più ruvidi e elettronici. Una particolarità di questo disco ,nonché filo conduttore di tutti i brani, è la presenza del synth yamaha reface che ha determinato spesso la composizione e il suono di questo lavoro.
Dicci della produzione. Come l’hai condotta e che limitazioni hai dovuto affrontare?
La produzione l’ho condotta cercando soprattutto dei suoni che mi ispirassero. Come prima cosa ho quasi eliminato la chitarra acustica (presente solo in 2 brani), ho scelto L ‘elettrica e cercato suoni intriganti dal synth e dalla batteria elettronica (spesso ho iniziato a comporre proprio dal synth o da un groove). Insomma avevo bisogno di fare un disco diverso dal mio solito, con nuovi stimoli. Le limitazioni di fare tutto da sola è che a un certo punto è difficile restare lucida. La cosa più ardua per me è stato mixare i brani. A quel punto avrei davvero avuto bisogno di un orecchio esterno.. certo ho chiesto dei feedback ad amiche e amici ma è stato comunque molto difficile, lo scoglio più grande. Il risultato mi rende molto fiera.
In tante foto dalla tua cartella stampa hai grandi cuffie alle orecchie. Come a significare anche “isolamento” dal resto. Qual è la chiave di lettura?
Esatto, le cuffie per rappresentare la musica nell’isolamento.. e poi diciamo che le cuffie sono state parte di me, sempre sulle mie orecchie durante il lockdown.. ho dovuto lavorare sempre in cuffia per non disturbare il vicinato.
A chiudere: torniamo dal vivo? Cosa ci aspetta?
Si, il 18 marzo ho presentato il disco al Lian club di Roma con tutta la formazione. Ora grazie al Booking O’live ho un po’ di date in giro in duo con il batterista Giampaolo Scatozza (27 e 28 marzo a Battipaglia e Lecce) e con il violinista Andrea Di Cesare (30 marzo a Milano e 1 Aprile a Cesena). Poi spero si continuerà in giro per l’Italia e perché no all’estero.