My Way, uno dei pezzi più famosi di Frank Sinatra, è ritenuta da molti come una delle canzoni più belle mai scritte. L’inevitabile rassegnazione di fronte all’approssimarsi del calo delle quinte scossa da un moto d’orgoglio. Un tema intenso e difficile che ci apre gli occhi all’incanutirsi dei capelli e rende le orecchie più sensibili ai rintocchi soffocati di un invisibile ma mai ignorato orologio. Considerate quindi queste caratteristiche del brano si sono levate alcune voci stupite dal pubblico dell’Ariston quando lo scorso febbraio Yuman, per la serata delle cover, ha deciso di reinterpretarlo con il glorioso accompagnamento della pianista Rita Marcotulli. Oggetto dei loro commenti non è stata tanto l’esibizione poco soddisfacente di Yuman (troppe note sbagliate e solo una minima crescita dinamica in un pezzo che una volta arrivata l’ultima frase dovrebbe abbattere qualunque diga trattenga il pubblico dal pianto e dagli applausi) quanto proprio la decisione di associare un brano così intenso a un cantante molto giovane(dimenticandosi quindi di come Paul Nizan ammonisse dicendo “Avevo vent’anni, non permetterò a nessuno di dire che questa è la più bella età della vita”). Per quanto non sia stato, questo, un dibattito molto diffuso si incentra comunque su un argomento di un certo interesse. Sollevando una simile questione si è messa infatti in discussione la possibilità per un artista di interpretare un qualunque brano sia di suo gradimento per un motivo tanto banale quanto lo scarto biografico tra questi e l’opera d’arte (perché per ciò che riguarda una canzone come My Way è solo di opera d’arte che si può parlare).
Frank Sinatra, che imparò a detestare il brano, registrò la sua versione, nel 1968, all’età di cinquantuno anni quindi non esattamente dall’alto di una vita che dal nostro moderno osservatorio tenderemmo a definire compiuta o esaurita. Il tempo aiutò senz’altro a corroborare il significato suggestivo di cui abbiamo parlato ma già da questa nota possiamo renderci facilmente conto di quanto sia in effetti malleabile il contenuto di un oggetto come una canzone. Più avanti sono stati tanti altri gli artisti che hanno reinterpretato la canzone e tra questi desidero citare solamente Michael Bublé per un motivo ben preciso. Bublé, infatti, ha inciso durante la sua carriera moltissime cover di grandi pezzi della tradizione americana tra cui la potentissima Feeling Good, resa eterna dall’indimenticabile Nina Simone. Un simile inno alla libertà, alla rottura del giogo degli oppressi che si libra dalle labbra di una donna nera fino a posarsi su quelle di un uomo bianco? Questa potrebbe sembrare una dolorosa ironia ma si tratta invece della vita dell’arte che una volta esaurita la propria pertinenza con il singolo contesto si innalza fino all’universale. La natura polisemica della musica e della poesia nasce dal filtro di chi le riceve e le rianima col proprio essere. Cantata da Bublé questa canzone assume un significato diverso in quanto allarga la popolazione degli oppressi e ne individua la causa come una presenza che appesta il sistema all’interno del quale esistiamo. Se lui la interpretasse con l’intento di mantenere invariato il messaggio, con la pretesa anzi di fare qualcosa del genere, saremmo sicuramente giustificati nello storcere il naso ma la coscienza di creare qualcosa di nuovo facendolo semplicemente passare attraverso la propria esperienza è ciò che permette al bello e al sublime di durare nel tempo. In questo stesso modo, quando canta My Way si possono fare altre considerazioni parallele. L’originale francese (ebbene sì, la canzone deriva dal brano del ’67 Comme D’Habitude di Claude François che Paul Anka sentì e adattò in inglese), per esempio, parlava della fine di un matrimonio. Questa versione potrebbe quindi semplicemente essere associata ad altri eventi della vita di chi la canta. La presa di coscienza del fatto che ciò che è stato è stato e che si può perlomeno riposare nella consapevolezza di aver fatto tutto ciò che si è potuto per eliminare i rimpianti. Quando allora un ragazzo come Yuman prende in mano il microfono e allunga questo tema al pubblico dell’Ariston come possiamo non capire noi che l’ascoltiamo? Bisogna rendersi conto che sta rendendo omaggio a qualcosa che anch’egli comprende e che in qualche modo vive o ha vissuto. Si deve smettere di ignorare l’esistenza epica dei più giovani. Negare la possibilità di avere un passato che si può più o meno giustamente ritenere concluso è uno dei tanti sintomi dell’infantilizzazione su vasta scala cui si assiste in contesti artistici quanto politici o di vario genere.
Se gli concediamo un presente, infatti, non possiamo negargli un passato. Non è certo il caso di sostenere che in vecchiaia non si abbia più ragione per identificarsi in un testo simile piuttosto che in gioventù ma non si può non dare un valore all’esperienza che ha un giovane del proprio vissuto e soprattutto non concedergli la possibilità di essere in una certa misura sensibile a tematiche che non appartengono pienamente alla propria sfera emotiva. Il presente glielo concediamo appunto, perché è di questo che ci canta Yuman col suo brano Ora E Qui e noi non troviamo alcunché di improbabile nel sentirglielo fare. La sua “strada tutta curve tra la testa e il cuore”, che mi ricorda la (The) Long And Winding Road dei Beatles, parla di un amore per la vita fratturato, reso impuro dalla semplicità con cui complichiamo ciò che viviamo. Questo messaggio equilibra pienamente la pesantezza di una canzone come My Way e dovrebbe anzi renderne la scelta come quasi naturale. Nel suo brano originale si sente poi molto l’influenza della musica americana. L’arrangiamento è infatti rinvigorito dalla numerosa strumentazione dell’orchestra. L’armonia e la melodia non sono banali, la modulazione della seconda metà del brano ha un effetto potente e non sembra un semplice manierismo. Le parole, infine, come già accennato sono molto suggestive. In conclusione, questo pezzo è senz’altro molto più suo ma se non si può ancora dire lo stesso di My Way il motivo è senz’altro tecnico piuttosto che ontologico.