Ovunque Sarai è una canzone che ci mette di fronte alla realtà frammentaria dell’esistenza. Il suo tema di intima vicinanza a qualcuno che scompare evidenzia dolorosamente il suo mutare forzoso in qualcosa di altro che necessita di essere individuato e percepito. Tra le canzoni dell’ultimo festival di Sanremo è una di quelle che mi ha colpito di più proprio per questa delicatezza del messaggio, presentata da un’armonia meno banale della maggior parte degli altri pezzi in gara e dalla potenza vocale di Irama, che si è dimostrato un cantante molto capace e dal grande controllo dei propri mezzi.
Inserito nel suo contesto, però, cioè l’album Il Giorno In Cui Ho Smesso Di Pensare, questa poetica bellezza è meno evidente. Il brano arriva solo in chiusura di un disco che oscilla tra reggaeton commerciali (tra i quali ho preferito facilmente È La Luna, che dà un’impressione più viva nella produzione staccandosi da quel suono meccanico di loop copiati e incollati senza pudore che sono troppo spesso la colonna su cui si regge questo genere) e ballate malinconiche che non sembrano mai dire nulla di nuovo. Si arriva stanchi e Ovunque Sarai non è capace di restituire l’impatto che ha invece avuto sull’Ariston.
Tre brani, però, meritano una maggiore attenzione. Innanzitutto, la rumba spagnola di Yo Quiero Amarte è un buon modo per ricordare che la musica latina ha moltissime variazioni ritmiche da offrire; in secondo luogo, Colpiscimi è un altro pezzo che si distacca dagli altri soprattutto per la sua batteria hip-hop che crea un prima e un dopo nel registro del disco. Ma la canzone che davvero sorprende in mezzo a tutto questo è Baby – Capitolo XI. In un secondo sembra di trovarsi in Arizona, dispersi nel marciume del legno di uno sporco borghetto del Far West. Un arrangiamento pop con tanto di archi, il suono di un campanile a ravvivare il sentimento di lotta imminente e una strumentazione decisamente rock (non si può non apprezzare un bellissimo assolo di chitarra in chiusura) creano un ecosistema a parte all’interno del quale si dispiegano davvero le potenzialità di Irama artista. Al di fuori di questa bolla, però, il resto del materiale appare poco definito, come se lo scultore non fosse riuscito a togliere l’ultimo strato di marmo che ancora intrappola la statua.
Sarebbe d’altronde sbagliato criticare il disco perché non si ripetono brani simili a uno che ci ha particolarmente stimolati. Anzi, è una prerogativa dell’arte quella di regalare dettagli piccoli e irripetibili che rendano le opere uniche e necessarie per il loro fruitore. Si potrebbe piuttosto rimproverare a Irama di non essere stato capace di fare la stessa cosa con più di uno o due brani. Questo non significa che il reggaeton non possa essere la base per più pezzi ma soltanto che a questi manca quella personalità (armonica, timbrica, melodica, lirica ecc.) che rende memorabili le canzoni che continuiamo a cantare fino all’estate successiva alla loro pubblicazione.. E magari anche più a lungo.