Bologna. Di fronte a Palazzo D’Accursio, la figura del Nettuno indica con disinvoltura il grande cartellone illuminato da luci gialle soffuse adesso che il pomeriggio si spegne. Un volto frammentario, dipinto da una coltre di fumo grigia circondata da piccoli fiori dalle foglie lisce e un nome cremisi: Cremonini.
Si tratta, infatti, della pubblicità di La Ragazza Del Futuro, il nuovo album di Cesare Cremonini, disponibile su tutte le piattaforme dallo scorso venerdì 25 febbraio. Il disco che, dopo la bellissima esibizione del cantante bolognese sul palco dell’Ariston, tutti attendevano è una sorpresa pervasa di amore per la vita e per la musica. Un’intima ode alla natura dell’esistenza attraverso le sue luci e le sue ombre. Si scontrano così, nell’immagine di copertina, le diverse tinte di bianco e nero con quel nome rosso acceso (cognome, anzi, pensato da Cremonini come un’indicazione a tutto ciò che esula dal singolo individuo e si estende al passato, alla famiglia, al contesto in cui l’uomo si forma e si realizza). Tutto questo si realizza in una collezione di brani molto diversi tra loro, tenuti insieme da un’impalcatura di orchestrazioni classiche di impronta quasi cinematica che divide il disco in sezioni. Le prime tre canzoni raccolgono una varietà di riflessioni sul modo inintelligibile in cui passato e futuro si incontrano costantemente nel nostro presente; tra i due interludi, invece, si sviluppa il negativo di un amore dal suo inizio alla sua cristallizzazione conseguente al rapporto consumato; Le canzoni successive raccontano altri amori e altri incontri, una socialità diffusa che passa dagli amici ai ricordi; Il pezzo conclusivo crea invece una sezione a sé stante che chiude con una nota riflessiva questo solidissimo lavoro.
Intro, che giustamente apre, è una composizione strumentale che presenta il tema sviluppato nella title track. La Ragazza Del Futuro è un pezzo che avevamo già avuto modo di conoscere. L’attacco avrebbe guadagnato in intensità se la voce non fosse stata accompagnata da un piano che suona insistentemente alcuni block chords che però più avanti nel mix funzionano. Lo stile è chiaramente quello di un gruppo disco. Steve Jordan, ospite alla batteria, è come un treno sui cui vagoni si festeggia. La chitarra elettrica ha un tono pulito e un bel delay e i sintetizzatori creano un potente tappeto sonoro. L’insieme grida di essere ballato tutta la notte. Da qui fino all’interludio, invece, si rallenta un po’. Il secondo singolo che aveva anticipato l’album, Colibrì, affida la sua capacità di suggestione a un ritornello discretamente memorabile. Il frullare delle ali di un colibrì è affidato a un trillo di pianoforte che si distingue nel crescendo orchestrale che prepara all’ingresso dell’elemento elettronico che va poi a reggere il pezzo vero e proprio. Il suo impatto, però, è meno forte del pezzo che segue, MoonWalk, che fa una maggiore impressione per il suo forte carattere intimo e sentimentale.
A livello di sezione la porzione più forte e convincente dell’album è quella che si sistema tra i due interludi, Interlude + e Interlude –. In quindici minuti la passione si dipana nella sua interezza dall’atmosfera seduttiva di La Fine Del Mondo alla più divertente Chimica, un pezzo potente con un bel basso presente, una chitarra rock che trascina il ritornello e una sezione strumentale dominata da un sassofono molto effettato e dai sintetizzatori in cui si sbizzarrisce il corpo e si impone la sensualità. Tutto questo si risolve ne La Camicia, con la sua introduzione tutta arpeggi e voce. La dolcezza dell’amplesso si riduce alla leggerezza del sentimento. La parola “nuda”, che prima era carica di erotismo, traduce adesso invece il carattere onirico del pezzo.
Dopo l’ultimo pezzo strumentale, Delfini, arriva la bellissima chiosa di Chiamala Felicità (Chiama la felicità), una ballad fintamente spensierata che porta a riflettere senza amarezze sulla vita, sugli errori e i terrori che la caratterizzano ma anche sulle piccole cose che la rendono speciale. Il finale ripete i versi di apertura e dona una circolarità al brano che si può riconoscere anche al disco intero. Dal futuro si arriva al passato e necessariamente poi il percorso si inverte. Si sentono, in questa lunga eco, delle forti influenze della musica dei Beatles, in particolare in una plagale nascosta (il quarto grado armonizzato di una scala suonato prima in maggiore e subito dopo nel suo parallelo minore) che il gruppo inglese ha sfruttato spessissimo, e in particolare dello stile di George Harrison (nato, nel 1943, proprio il 25 febbraio), sempre presente nelle chitarre slide che si trovano sparse qua e là nell’album e nel verso dell’ultima traccia “guarda come tutto passa e se ne va” che riprende in maniera meno perentoria il titolo dell’album dell’ex-Beatles “All Things Must Pass” (tutte le cose devono passare), un memento mori che deve spronarci a vedere il bello in un presente che, tra futuro e passato, è l’unica certezza.