Si intitola “Coccodrillo bianco” l’esordio di Marco Cignoli, conduttore televisivo ma da oggi anche cantautore… anche se a leggerla bene si scopre che le sue sono scritture anche antiche di vita, di quando era più giovane, ragazzo se non bambino. E forse oggi l’incastro di tantissime cose, dalle possibilità di produzione alle ragioni nuove che vivono dentro l’essere artista in questo tempo, hanno creato la scusa buona e irresistibile per dare vita ad un disco intenso e ricco di ispirazione come questo. Pop italiano, leggero ma anche fortemente quotidiano. Noi non ci tiriamo indietro come sempre…
Esordio discografico: che aspettative e che responsabilità dai a questo disco?
Questo disco permette al piccolo Marco, il bambino che ero, di vedere realizzato il proprio sogno e mi auguro possa regalare al Marco adulto un’opportunità per migliorarsi.
La scena indie sempre più votata alla ricerca. Dalla tua invece troviamo molte radici classiche… o sbaglio?
Ho voluto rimanere fedele a me stesso in tutto: parole, sound, arrangiamenti vocali. Non volevo un disco “indie” o che rispecchiasse a tutti i costi le mode del momento. Desideravo semplicemente un disco “mio”, nel quale potessi riconoscermi. Sono un “ragazzo pop” cresciuto negli anni ’90, che da adolescente si è affidato alla musica di Tiziano Ferro e Loredana Bertè, per poi scoprire cantautori storici come Ivano Fossati e Lucio Dalla. Credo che qualcosa di tutti loro mi sia rimasta addosso. Per esempio: mi hanno fatto notare che alcune suggestioni di “Cercala la notte” ricordano “Folle città” di Loredana Bertè. Sentirsi dire una cosa del genere scalda il cuore.
E in merito al passato della canzone d’autore? Come ti rapporti con i grandi miti? Ispirazioni, insegnamenti o strade che cerchi di evitare per non incappare in ridondanti ripetizioni?
Con i grandi miti mi rapporto affidandomi a loro quando sento il bisogno di un abbraccio, di un sostegno o di chissà che altro. In quanto alle ridondanti ripetizioni, nella scrittura di questo disco non c’è mai stato nulla di così ragionato. Le canzoni sono nate sempre per un’esigenza interiore, spontanea, magari nel buio della mia stanza o bloccato in mezzo al traffico. Anche nel lavoro di arrangiamento e produzione ci siamo lasciati trascinare da quello che veniva, senza preoccuparci di cosa era già stato fatto e cosa no. In fondo certi temi come l’amore non corrisposto o il male di vivere si ripetono e si ripeteranno sempre, ma ognuno li racconta e canta a modo suo.
Conduttore o cantautore?
Da bambino mi presentavo da solo e poi cantavo. A raccontarlo oggi mi fa sorridere e fa ridere gli altri, ma succedeva davvero. Sono ruoli nei quali mi sono sempre identificato e sentito protetto. Faranno sempre parte di me, anche se un giorno decidessi di fare un mestiere completamente diverso.
Molto di questo disco sembra venire da un passato che in qualche modo hai tenuto nel cassetto… per difesa o per paura?
Per paura, ma anche per paura della paura, quindi anche per difesa. Concetto un po’ marzulliano, mi rendo conto! In canzoni come “Tamburo” e “Autunno centrale” affronto tematiche come gli attacchi di panico o i disturbi d’ansia: farlo così, pubblicamente, è un regalo gigantesco che mi faccio per crescere e avere meno paura.
E visto che sembra davvero essere un “fare outing”, questo disco ha cambiato anche il volto sociale di Marco Cignoli?
Questo disco ha appagato, saziato, riscattato e liberato Marco bambino e i suoi sogni, permettendo a Marco adulto di diventare un po’ più grande, consapevole e aperto verso nuove sfide.