Dopo il precedente disco “Vanity”, Marco Sirtori torna a pubblicare musica e lo fa con un’interessante reinterpretazione di “Personal Jesus”, amata hit dei Depeche Mode. Un brano che ha segnato la storia della musica e che Marco rilegge a modo suo. Ne abbiamo parlato con lui.
Ciao Marco e bentrovato! “Personal Jesus” è il tuo nuovo singolo. Come hai vissuto la
release di questa canzone?
Ogni volta che decido di arrangiare, eseguire e produrre un brano è perché me ne sono innamorato fino a non poter far a meno di metterci mano giorno e notte. È sempre un po’ una folgorazione. Anche se si tratta di una canzone come Personal Jesus, un must degli anni Novanta che amo da sempre. Un giorno, un po’ per caso, l’ho riascoltata ed è partita un’idea creativa. Poi è venuta la parte del perfezionamento che è molto lunga e faticosa. Ascolto e riascolto il pezzo, lo modifico profondamente o lo ritocco nota per nota (sono un perfezionista), lo faccio ascoltare a musicisti professionisti e a gente comune perché mi interessano le loro reazioni e poi lavoro ancora sull’arrangiamento finché non sento che per me il brano è perfetto. Dopo tutto questo lavoro vivo la release con grande trepidazione: non vedo l’ora che esca! A maggior ragione se si tratta di un pezzo come Personal Jesusche rappresenta una svolta importante per me, sia sul piano compositivo, sia per l’interpretazione vocale che molto deve al lavoro fatto con Marquica. Sono convinto che questo singolo porti a compimento il lavoro degli ultimi anni mostrando la mia vera immagine musicale.
Cosa ti lega ai Depeche Mode? C’è un motivo particolare che ti ha spinto a
reinterpretare questo brano?
I Depeche sono stati uno dei gruppi da me più amati negli anni ottanta-novanta. Sia i loro inizi elettronici, sia la svolta compositiva segnata conPersonal Jesushanno costituito un riferimento per le mie sperimentazioni negli anni della formazione musicale, anni in cui componevo e suonavo per un gruppo di pop-rock italiano. Compravo tutti i loro CD e sono stato a molti dei loro concerti milanesi. Personal Jesusè uno tra i tanti brani dei Depeche che ho sempre desiderato reinterpretare per abitare il loro mondo sonoro che ho sempre sentito molto affine al mio. Poi il brano si prestava molto ad assumere quel carattere “alla James Bond” che, come mi è stato detto più volte, è un po’ la cifra del mio fare musica.
Cosa significa per te essere un buon interprete? Una figura artistica estremamente
nobile ma che per molti non gode dello stesso rispetto del cantautore.
Non mi ritengo solo un interprete ma un musicista a tutto tondo. Questo brano, come tutti quelli che compariranno nell’album in uscita a dicembre, è stato da me riarrangiato radicalmente, ogni strumento da me eseguito (ovviamente grazie alla tecnologia di cui disponiamo oggi), programmato e rifinito autonomamente. Non mi limito a ricantare un pezzo: lo faccio completamente mio. Questo non significa che io sminuisca i puri interpreti. Far emozionare conmusicache abbiamo ascoltato mille volte nell’interpretazione originale, magari nella voce di un artista gigantesco e insuperabile, è difficilissimo. Quello che occorre è molto studio (come in tutte le cose), una grande cultura musicale e poi tanta sensibilità. Occorre far vibrare l’emozione e trovare un miracoloso equilibrio tra quello che il brano diceva originalmente e ciò che vogliamo far sentire noi. A volte, completato un brano, mi tocca lavorare mesi per trovare la giusta interpretazione vocale.
Tu però sei anche un cantautore. Quindi che cosa differenzia il Marco interprete dal
Marco songwriter?
Non credo ci sia una grande differenza. Il mio stile musicale e interpretativo non cambiano. A cambiare è il metodo di composizione. Quando si lavora su una cover si possono seguire due tendenze: o modificare troppo l’originale snaturandone il valore e rendendolo irriconoscibile (al che il pubblico reagisce sempre male) oppure, al contrario, ci si sente troppo vincolati dall’originale e non si riesce a produrre qualcosa di creativo e interessante. Quanti album di cover non ci dicono assolutamente nulla perché sono il frutto di un bel “compitino” privo di creatività! Non parliamo poi delle cover che ci vengono propinate quotidianamente nei contest televisivi.
C’è qualche artista con il quale ti piacerebbe fare un feat.?
In realtà ce ne sono molti e molte. Partiamo dai sogni irrealizzabili, ovvero dai colossi del pop-jazz internazionale come Melody Gardot e Gregory Porter o da quel musicista straordinario e poliedrico che è José James (ho avuto modo di sentirlo due anni fa al Festival Jazz di Nizza). Poi ovviamente le interpreti come Lady Gaga e Christina Aguilera. Ma siamo nella dimensione del sogno, anzi del delirio utopico. E poi, abbiamo anche tanti grandi musicisti italiani con cui mi piacerebbe lavorare.
Cosa combinerai nei prossimi mesi?
Da qui a metà novembre perfezionerò l’album in uscita; poi ne curerò la release per qualche mese lavorando nel frattempo a un secondo album di cover, tutte italiane, che completeranno questo progetto. E poi, finalmente, metterò mano ai pezzi miei che sono già abbozzati.