Domani 1° ottobre, Luca Carboni riceverà il Premio alla Carriera 2021 del MEI di Faenza. La motivazione, tanto semplice e intuibile quanto esatta, è la seguente: “Cantautore che ha segnato la scena musicale italiana negli ultimi quattro decenni, capace di cavalcare da protagonista la trasformazione della canzone d’autore italiana negli anni ’80 e ’90, portandola nel nuovo millennio e diventando un punto di riferimento per un’intera nuova generazione di artisti italiani, molti della nuova scena indipendente, mantenendo forte e costante la propria cifra artistica”.
Per chi scrive questo giusto e doveroso premio rappresenta l’occasione di parlare con uno dei massimi autori della storia della canzone italiana, artefice di una canzone capace di tenere insieme autoralità, pop, rock, new wave, di mescolarsi al rap, di attraversare i decenni e la storia d’Italia con una levità che sempre ha saputo includere ironia, tenerezza e approccio lirico, poetico. Un percorso entusiasmante nato dall’incontro tra talento e magia in una Bologna lontana che di talenti era ricchissima.
Vorrei iniziare chiedendoti la conferma di una leggenda, e nel caso vorrei proprio che questa leggenda me la raccontassi tu visto che l’ho sempre ascoltata da altri: parlo della sera in cui pare andasti da Lucio Dalla e dagli Stadio con un quadernino con i tuoi testi, quella sera da cui è iniziato tutto…
In realtà non era un quadernino, era una busta grande con dei fogli tipo A4 in cui c’erano testi di canzoni che avevo scritto. Una parte erano di pezzi già fatti con la mia band, i Teobaldi Rock, e un’altra cose mie, canzoni che stavo scrivendo e dovevo ancora sviluppare, idee. Tutti portavano demo, cassette, io stesso in precedenza in alcune occasioni avevo fatto lo stesso, ma quella sera mi venne l’idea di portare qualcosa che si potesse notare subito perché avevo la sensazione che un demo richiedesse più attenzione, in fondo ne arrivavano molti, si perdevano e magari non venivano ascoltati. D’istinto ebbi questa intuizione dei testi e la magia fu che questa intuizione coincise nella sua realizzazione con una serata in cui all’Osteria da Vito, in un tavolo appartato in cucina perché era una riunione di lavoro, Lucio Dalla e gli Stadio stavano ragionando proprio sui testi della band.
In quel periodo erano in studio a produrre l’album d’esordio del gruppo, poi dopo poco Lucio sarebbe dovuto partire per l’America, quella sera parlavano dei testi del primo album perché non c’era un vero autore nel gruppo, Lucio era interessato a trovare qualcuno per far nascere un linguaggio nuovo per questa band che di fatto era la sua band, un gruppo che in quel momento voleva però tentare anche di trovare una dimensione a sé. Lucio aveva scritto Grande figlio di puttana e alcuni testi di quel disco, altri testi erano di gente presa qua e là ma senza un vero legame con gli Stadio, quindi l’idea in quel momento era di trovare qualcuno che prendesse il ruolo di paroliere del gruppo, diciamo così.
L’oste mi disse di aspettare, perché appunto la busta è stata portata al tavolo di Lucio, così mi misi fuori sul marciapiede. Quella sera faceva molto caldo e la finestra era aperta, così dalla strada ho visto la scena: Lucio che strappava la busta e leggeva i testi e li passava agli altri, c’erano anche il produttore degli Stadio Renzo Cremonini, il fotografo e regista di video Ambrogio Lo Giudice, c’era Roberto Serra fotografo storico delle copertine di Lucio: i testi passavano da uno all’altro e a un certo punto ho sentito che Lucio diceva «bello, cazzo, ma chi è, ma chi è», io avevo lasciato il mio numero di telefono – naturalmente fisso, era l’81, non c’erano cellulari – e ho visto all’improvviso Lucio che si alzava e andava al telefono dell’osteria per chiamarmi. Allora sono rientrato, lui era già al telefono con mia sorella che gli diceva «da quel che so io Luca è andato da Vito» e lui le diceva «ma guarda io sono qua da Vito!». Gli ho dato una pacca sulla spalla per farmi vedere, loro mi hanno invitato al tavolo, mi hanno fatto molti complimenti ed è stata una grande emozione: il giorno dopo ero allo studio di registrazione. E pensare che non li avevo indirizzati specificamente a Lucio.
Ah! E chi speravi se li prendesse lì da Vito? Pensa cosa sarebbe successo o non successo se li avesse presi Guccini!
Avevo incontrato Ron una volta che era a Bologna ed era andato a vedere la Virtus con Lucio, io tifavo Fortitudo, ma mi piaceva talmente tanto il basket che vedevo tutto. Al bar Ron mi aveva consigliato di portargli dei demo proprio da Vito, io avevo imparato che lì si incontravano molti cantautori bolognesi da Lolli a Guccini che viveva all’angolo ed era lì sempre e aveva lanciato per primo il ritrovo, poi anche Ron, Lucio, De Gregori che veniva portato lì quando era a Bologna così come Gaber o Carmelo Bene. Dunque avevo pensato di lasciare i testi e che chiunque passasse di lì potesse prendere e leggere, era una cosa ingenua ma ha funzionato, sulla busta come destinatario avevo scritto “Ron” memore del nostro scambio alla partita, poi beh, se li avesse presi Guccini non sarebbe successo niente credo, Guccini non aveva vocazione per la produzione, in quel momento Lucio invece voleva produrre, era aperto all’ipotesi di trovare altri con cui lavorare.
E poi iniziasti a scrivere per gli Stadio immediatamente.
Quando portai questi testi avevo ancora il ruolo di autore e musicista della mia band con cui non cantavo e mi piaceva essere quello che scriveva, quindi pensavo ancora a fare musica senza metterci la mia faccia. L’esordio degli Stadio era quasi finito per cui io lavorai solo a Navigando contro vento per quel disco, ma da lì è nata la collaborazione per cui il secondo e il terzo album mi vedono come loro autore, quasi membro della band. Tranne per il brano La faccia delle donne, in quel disco lì gli altri testi erano tutti miei, poi in parallelo è partita la mia storia musicale individuale e quindi tenere insieme entrambe le realtà in quella fase sarebbe stato impossibile.