Sensazioni di interessante deriva medievale, un suono americano che spazia dentro le tinte di un dark folk spirituale… e poi il mito greco, antico, che è stile e metafora della vita quotidiana. Lei è Sara Baggini in arte Augustine che approda ad un nuovo disco questa volta prodotto in studio presso La Cura Dischi di Perugia da Fabio Ripanucci e Daniele Rotella. Si intitola “Proserpine”, uscito per I Dischi del Minollo, lavoro introspettivo ma anche “rock” sotto tanti punti di vista e dentro molte dinamiche, lavoro di silenzi e spazi aperti dentro cui volteggia sospesa la sua ricerca, spirituale e personale. Disco di indagine quello di Augustine, morbidissima e a tratti “orientale” nella sua timbrica di voce e in quel certo modo di disegnare le melodie. E nel suo essere dark, “Proserpine” si fa anche e soprattutto industriale, chiuso nel cemento di periferia… tra buio e luce, metafora della vita che arriva dal mito di Proserpina.
“Proserpine” è un disco che mi par esser di passaggio… sembra come se lo fosse. Non hai mai avuto questa sensazione?
Non avevo mai pensato a “Proserpine” in questi termini, forse perché ogni mio disco è sempre preceduto da lunghe gestazioni e risulta poi essere un lavoro molto compatto; tendo a concepire ogni album come una specie di monolite, ognuno come un mondo a parte, estremamente coerente al suo interno. Ma riflettendo sulle vostre parole, posso forse immaginare che questa sensazione sia dovuta al fatto che in fondo l’album racconta di un viaggio, un viaggio introspettivo, un precipitare nell’Ade, appunto. Forse è un passaggio di cui ciascuno di noi ha la propria, intima esperienza.
Io partirei anche dal suono. Industriale, lontano, antico a tratti… per alcuni momenti mi fai pensare alle oscurità di P J Harvey. Cosa mi dici?
Indubbiamente album di PJ Harvey come “White Chalk” e “Let England Shake”, che adoro e ho ascoltato moltissimo, possono avermi influenzata in questo senso. Ciò che apprezzo di quei dischi, tra molte altre cose, è che gli arrangiamenti sono essenziali, senza orpelli. Questa è una delle linee guida che il mio produttore, Fabio Ripanucci, ed io abbiamo seguito durante la lavorazione del disco. Per il resto, il suono generale dell’album è esattamente il risultato di questo incontro personale. Ciò che risulta “remoto”, nello spazio e nel tempo, è senz’altro farina del mio sacco (e proviene indubbiamente dalle mie personali influenze musicali, tra cui posso citare, per esempio, Dead Can Dance e Cocteau Twins); quel tocco “industrial” un po’ alla Death in June, la profondità e la freschezza dei suoni sono invece opera di Fabio.
Quanti sono i ponti verso la letteratura del mito greco?
I riferimenti sono costanti, dal ratto della dea al melograno, frutto fatale che condanna Proserpina alla sua prigionia nell’aldilà; i fiori, che fanno la loro comparsa qui e là nei brani, sono certamente un altro attributo della dea, divinità delle messi e della primavera, oltre che degli inferi: tra questi, gli anemoni, secondo il mito nati dal sangue del morente Adone, amato da Proserpina… Tuttavia, è chiaro che l’album non voglia essere una trasposizione pedissequa del mito: il mito si affaccia nella narrazione e diventa un filtro che conferisce all’autobiografia una dimensione “altra”, più remota, appunto; esattamente come nel quadro “Proserpina” di Dante Gabriel Rossetti (immagine guida del mio lavoro): il ritratto di una donna, nelle vesti della dea, acquisisce una dimensione diversa, una vertigine temporale.
E quanti invece sono rivolti ad una spiritualità più mistica, forse meno quotidiana…?
Preferisco parlare di “sacralità”, piuttosto che di “spiritualità”. È indubbio che nella mia musica, nel mio viverla, si manifesti un rapporto con una dimensione sacrale (e non “religiosa”!). Da qui anche la scelta dell’identificazione con una divinità antica. Il canto è un’invocazione, un ponte gettato verso un altrove di cui non conosco nulla ma esperisco tutto.
E se ti chiedessi se esiste della “magia” in questo disco?
“Magia” è un altro termine che non uso volentieri. Mi auguro, però, che questo disco abbia un suo potere, certamente: quello di far risuonare l’animo altrui delle stesse vibrazioni del mio; quello di saper condurre il prossimo in un luogo lontano, in un viaggio verso un abisso profondo, brulicante di immagini e di vita, fino al ritorno in superficie, dove la luce è accecante. Questo vorrei saper fare con la mia musica.