Nessun programma particolare, nessun obiettivo, niente orizzonti matematicamente stabiliti dalla produzione. E di produzione si parla con una luce puntata sul nome di un grande come Victor Van Vugt che è una delle colonne portanti che ha dato forma e suono all’esordio di Luna Paese ovvero Gintsugi in questo eponimo primo disco. Lavoro non immediato, eterogeneo, apolide che ricerca molto, nelle sonorità come nelle soluzioni, dei tratti orientali, delle urbanizzazioni berliniane o anche quel suono digitale distopico e futuristico che tanto piace oggi. Disturbante, in senso alto e buono, questo video della bellissima “Blind” che corona e fa da bandiera in questo suo primo lavoro, per niente italiano, per niente attento alle mode… per fortuna.
Esordio con ottime carte che si giocano belle collaborazioni subito. Da Victor Van Vugt per quelle trame interazioni a Luca Pastore per un riferimento visionario italiano. Come hai intrecciato questi due mondi e cosa ne è venuto fuori secondo te?
Ho scelto Victor in modo molto istintivo, devo dire forse a posteriori per un modo di lavorare umano, un po’ distante forse dall’efficientismo che e’ tanto presente oggi per ragioni anche di denaro e di tempo – che sono sempre meno .
Victor non è intervenuto molto nel lavoro di creazione, è stato molto discreto, in ascolto ed incoraggiante rispetto ad ogni sperimentazione che volessi affrontare. Credeva dall’inizio che spingere sulla mia unicità a livello di idee e di suono fosse la strada giusta. Mi ha lasciato sbattere il naso, come si suol dire, su ogni mia singola scelta. C’è poi tutto l’aspetto della registrazione dal vivo, che si sente e che ho scelto. E che lega forse tutto l’EP. E chiaramente il mix.
Luca è un regista, che ho scelto entusiasmata dai primi video dei Subsonica. E aveva delle idee molto precise. È stato interessante per me girare il video perché ha fatto uscire dei lati di me stessa che non conoscevo, è stato entusiasmante e disturbante allo stesso tempo. Abbiamo avuto un confronto molto diretto e schietto, cosa che ho trovato fantastica.
Non ho pensato tanto a come ho intrecciato le collaborazioni, perché poi il centro per me resta sempre la mia creazione musicale. E credo che sia importante che lo resti, soprattutto quando si collabora con persone con più fama ed esperienza di te. Tutti e due comunque hanno fatto cose importanti intorno agli anni 90 e questo dice sicuramente qualcosa di me e delle mie passioni musicali.
La spiritualità di questo disco sembra vincere sulla ricerca del suono. Sembra quasi che sia un disco di visioni più che di estetica sonora… non trovi?
Le visioni sono all’origine. Ma poi c’è una ricerca sonora – prima di tutto nel minimalismo voluto e che da la particolarità anche del lavoro. Tanto tempo per strutturare i testi sulla musica e poi a fare diverse versioni della stessa canzone.
Non c’è un’estetica sonora che corrisponde ad un’etichetta di genere. Ma c’è un’estetica sonora personale, in cui ogni suono è stato rivoltato come un calzino per mesi, anche in post produzione, fino al mio quasi esaurimento nervoso. Ci siamo fermati per questo, altrimenti avremmo continuato. Non penso che l’esaurimento sia una nota d’onore però sicuramente è un disco con una ricerca sonora. Ma se non si sente forse è anche meglio.
E restando sul tema, il quadro finale pensi abbia saputo parlare di te e del tuo modo di sentire la vita oppure “Gintsugi” ha voluto rappresentare un tentativo di scoprire altro?
Si, non c’è una corrispondenza tra me e il lavoro artistico. C’è una corrispondenza tra il lavoro artistico e il mio immaginario, che mi influenza ma che non sono io. Sui testi lavoro credo un po’ come può farlo una scrittrice, rubando dei pezzi di quotidiano anche molto personale, di persone incontrate, di libri, di altra musica. Per poi però fonderle in un immaginario che in qualche modo racconta una storia, e che a quel punto non sono più “solo” io o il mio modo di sentire le cose (spero). Non ambisco a dare un’idea ma a trasmettere delle immagini e delle sensazioni in cui forse anche altre persone possono ritrovarsi.
Nella scena indie italiana ampiamente dedita alle mode ormai… questo tassello, questa nuova voce, questo disco secondo te a quale pubblico potrebbe parlare?
Sto aspettando che la moda attuale cambi! Ho fatto questo disco perché avevo delle canzoni, mi piaceva ascoltarle e piacevano ai miei amici ed amiche, e poi sono piaciute a Victor Van Vugt e ad altri produttori, e poi sono piaciute ai collaboratori con cui ho lavorato in seguito, eccetera. È andata così, molto semplicemente. Non mi sono mai veramente posta la questione del target. Questa voce credo potrebbe parlare ai disadattati che non rientrano nelle mode? A degli adolescenti depressi? Ma può anche parlare a delle signore che non capiscono l’inglese. Perché no?
In chiusa, “Blind” è un brano che ci è piaciuto moltissimo. Stiamo parlando di un “non voler vedere” o di un “non poter vedere”?
Entrambe le cose credo. Va bene?