Musica: nel post Covid si potranno fare concerti piu’ ecologici?
Da tempo i musicisti, costretti prima del Covid 19 dal modello di business ad affidarsi alle tournée, visto che con la morte del supporto fisico lo streaming ha recuperato solo il 10% del mercato, si mostrano preoccupati per l’impatto sull’ambiente provocato dalla loro attività e pensano ai modelli di live post Covid 19.
Non c’è musica su un pianeta morto. È la scritta che la cantautrice americana Billie Eilish ha mostrato, sulla sua maglietta, lo scorso novembre. Voleva manifestare la sua preoccupazione, come da noi Piero Pelu’ in Italia, per citarne uno, nei confronti del cambiamento climatico, e al tempo stesso, portare l’attenzione su un tema che impensierisce tanti altri suoi colleghi: fare musica inquina. Come spiega il New Yorker, per generare ricavi gli artisti sono sempre stati più costretti ad affidarsi ai tour di concerti prima dell’avvento del Covid 19 , in conseguenza dello streaming che fa perdrere il 90% del fatturato che aveva il mercato fisico dei cd, vinili e cassette e che paga pochissimo in royaltie: suscitano entusiasmo, certo. Ma provocano anche emissioni (aerei, trasporti, collaboratori, chioschi, le auto del pubblico nei parcheggi, rumori altissimi, assembramenti con schiamazzi etc. ) e immondizia. Che fare, allora, per essere responsabili e sostenibili?
Qualcuno dice soprattutto tra i big: basta con i tour. Come e’ gia’ successo per altri motivi negli anni Settanta per big italiani come Mina, Battisti e Celentano solo per citare i piu’ noti.
Ma per gli altri minori, la questione è più complicata. Rinunciare ai tour significa, molto spesso, chiudere per sempre la ditta. Infatti e’ intorno al live che ruotano gli introiti di un artista e di una etichetta discografica: il cachet del live, la vendita del merchandising durante il concerto e l’introito del diritto d’autore e tutti gli altri diritti con la compilazione del bordero’ Siae.
Una soluzione di compromesso quando ripartiranno i concerti nel posgt Covid 19 è stata trovata da Adam Gardner, chitarrista dei Guster, che insieme all’ambientalista Lauren Sullivan ha fondato Reverb, cioè una non-profit che si occupa di gestire e organizzare concerti minimizzando l’impatto ambientale. Ad esempio con una pianificazione più intelligente – la maggior parte dei musicisti segue più o meno le stesse tappe, componendo un giro del mondo di festival e date obbligatorie che assume un costo, in termini di emissioni, altissimo – cioè eliminando alcuni appuntamenti, rivolgendosi a sponsor per finanziare villaggi ecologici, tagliando le bottiglie di plastica, adottando mezzi di trasporti a biocarburanti, rifornendosi da fattorie locali, obbligando i chioschi ad avere un pedigree più green e, soprattutto, incitando i fan a fare carpooling e usare i mezzi di trasporto. Cambiare dove si può e abbattere emissioni dove si deve. Lasciando intatta la struttura portante, cioè il concerto. Tantissimi altri artisti infatti si è rivolta a Reverb, che pare essere una interessante novita’.
Una piccola soluzione, insomma, in mezzo a tante altre (riciclaggio materiali come cd , vinili etc.) che non risolveranno da sole il problema. Ma almeno sensibilizzano e promuovono nel pubblico una cultura ambientalista. Questa, alla lunga, si riverbererà anche in altri ambiti, con un impatto difficile da quantificare. Ma con ogni probabilità, molto importante. Molto, ma molto importante, e la musica su queste tematiche puo’ sempre avere un forte impatto sul pubblico dei fan.
A cura di Giordano Sangiorgi del MEI
(Fonte: Linkiesta, da uno spunto di Dario Ronzoni)