Il 7 ottobre 2008 l’industria discografica mondiale ha subìto una radicale trasformazione che ha cambiato per sempre gli usi e i costumi legati al consumo sonoro. Spotify ha inaugurato l’era dello streaming e rivoluzionato il mercato discografico proponendo un catalogo potenzialmente infinito di brani, album e podcast. Un sogno per qualsiasi appassionato di musica. Ma questa visione onirica in grado di soddisfare qualsiasi palato sonoro cela un lato oscuro che ora rischia di compromettere, almeno in parte, la mission del colosso dello streaming svedese.
Il problema riguarda un vero e proprio mercato nero dello streaming che, attraverso dei bot, aumenta artificialmente il contatore degli ascolti degli artisti. La questione è stata sollevata pubblicamente su Facebook nel maggio 2020 da “Sei tutto l’indie di cui ho bisogno” (una community specializzata sulla musica indipendente) e da “Le Rane” (una webzine musicale). Le due pagine social hanno lanciato un sondaggio – completamente anonimo – per artisti emergenti per verificare la portata di questo fenomeno. Al termine del sondaggio sono stati centinaia i giovani artisti italiani che hanno confermato di essere stati almeno contattati per entrare nel circuito del “doping dello streaming”.
Il modus operandi che si cela dietro la mercificazione dello streaming, come ha spiegato a HuffPost Giovanni Carnazza (produttore discografico de “Le Siepi Dischi”), è sempre lo stesso. Artisti emergenti e giovani produttori indipendenti vengono adescati sui social – in particolare Instagram e Facebook – da curatori privati di playlist su Spotify. Questi selezionatori musicali propongono, in cambio di un abbonamento mensile che ha un costo che varia solitamente dai 20 ai 50 euro, di inserire le canzoni degli artisti all’interno di playlist che faranno lievitare positivamente i dati d’ascolto. Tale incremento dello streaming non avviene però in modo organico ma artificialmente. I “curatori pirata” infatti investono una parte dei soldi pagati dall’artista per comprare bot e follower che solo artificialmente aumentano i contatori dello streaming. La promessa di investire una percentuale nella sponsorizzazione delle playlist sui social network resta vana. Infatti i soldi investiti dagli artisti emergenti in questa operazione sono utilizzati solo per comperare account e follower “fake”. Il resto della quota finisce direttamente nelle tasche dei “curatori pirata”.
Dietro il mercato dello streaming sembra esserci una rete strutturata. Spesso gli artisti adescati in questo sistema vengono trasferiti da una playlist a un altra con il pretesto di trovare il giusto habitat digitale per ogni brano. Dietro questa scusa si nasconde però sempre l’obiettivo di monetizzare al meglio, e in modo più credibile, i piccoli investimenti dei cantanti.
Con una semplice ricerca su Google è possibile constatare quanto sia facile e veloce poter accedere a servizi online che vendono ascolti “fake”, presentati come reali, con varie fasce di prezzo e con una funzione che permette di decidere (in alcuni casi) la geolocalizzazione di tali ascolti. Su alcuni portali è possibile anche acquistare i follower per specifiche playlist. Il numero di seguaci è infatti un dato fondamentale per una playlist: gli artisti emergenti, visionando questa informazione, saranno convinti più facilmente dai “curatori pirata” a investire dei soldi per aumentare il proprio successo su Spotify.
Le conseguenze di questo fenomeno sono molteplici. La prima: gli utenti di Spotify, sia premium che free, navigando sulla piattaforma devono fare i conti con dei dati che derivano da bot e non da veri ascoltatori. Inoltre non va dimenticato che gli algoritmi di Spotify si basano, per consigliare nuova musica che potrebbe piacere ai propri utenti, anche sui dati di ascolto. Se tali dati sono “dopati” è evidente che il meccanismo di raccomandazione venga sfalsato. C’è anche un altro aspetto che, in tempo di pandemia, può essere meno considerato perché riguarda la musica dal vivo.
Prima dell’inizio della pandemia di Covid-19 i promoter e gli organizzatori di festival musicali si basavano (almeno in parte) anche sui dati forniti da Spotify per scegliere gli artisti da invitare nelle proprie rassegne. Il colosso di streaming svedese fornisce a tutti gli utenti anche i dati sulle cinque città in cui un determinato artista è maggiormente ascoltato. Questa informazione, come conferma in modo anonimo un promoter indipendente a HuffPost, è stata sfalsata dal mercato degli ascolti “fake” ed è diventata particolarmente inaffidabile negli ultimi anni.
I cantanti di successo della musica pop italiana, inoltre, sono a volte vittime a loro insaputa di questo meccanismo. Per rendere la propria offerta musicale esteticamente valida i curatori delle playlist “fake” alternato brani di successo a quelli degli artisti emergenti che usufruiscono degli ascolti dopati. Quindi anche alcuni cantanti pop – che sono completamente estranei a questa vicenda – si potrebbero ritrovare dei dati leggermente falsati e alterati rispetto all’andamento organico che lo streaming dovrebbe avere.
Spotify, interpellato da HuffPost, ha confermato di conoscere il fenomeno: “La manipolazione artificiale degli streaming ha un impatto sull’intero settore ed è una questione che Spotify prende sul serio. Come capita con qualsiasi piattaforma di servizi digitali di grandi dimensioni, alcune persone tentano di aggirare il sistema”. Il colosso dello streaming “dispone di molteplici misure di rilevamento in atto che monitorano i consumi, per proteggere i nostri utenti e collabora attivamente con i partner del settore. Quando identifichiamo o veniamo avvisati di attività di streaming fraudolente, intraprendiamo azioni che possono includere la rimozione dei numeri di streaming, la trattenuta delle royalties e misure per mitigare l’impatto sulle nostre chart”.
Un esperto informatico, consultato da HuffPost, ha confermato che ogni portale – come i social network o i servizi di streaming – ha i propri algoritmi di controllo dedicati. Nonostante ciò la sfida tra bot e algoritmi è un gioco di ruolo in cui guardia e ladro si rincorrono senza catturarsi mai definitivamente. I server che producono bot, e gli informatici che lavorano a questi sistemi, operano per creare falsi account dal “comportamento umano” sempre più credibile per eludere qualsiasi tipo di controllo. Mail, immagini di profilo, attività social pianificata accuratamente sono solo alcune delle caratteristiche che rendono gli account “fake” sempre più difficili da identificare. In alcuni casi, rari ma esistenti, anche alcuni account reali vengono erroneamente scambiati per “fake”. La battaglia quindi è sempre aperta.
Una soluzione praticabile per Spotify potrebbe essere quella di nascondere i contatori dei dati d’ascolto come ha fatto Instagram con i “mi piace” dall’estate del 2019. Questa contromossa consentirebbe agli utenti e agli addetti ai lavori di concentrarsi solo sull’effettiva validità di un prodotto musicale e non nel successo commerciale. La presa di posizione pubblica di artisti famosi per sensibilizzare i cantanti emergenti a non cercare escamotage per rincorrere il successo sarebbe un’altra azione gradita e utile. Perché il valore dell’arte, e il conseguente successo dei cantanti, non può essere quantificato solo dai freddi numeri di una applicazione.
fonte: https://www.huffingtonpost.it/entry/il-lato-oscuro-di-spotify-dentro-il-mercato-nero-del-doping-dello-streaming-musicale_it_6009ae66c5b6efae62ffe2f8?fbclid=IwAR1beWZhfVftx9wFjZktejhAqerc6Y3zxm7AMe7Yv37KUcjrCTsLGVBDuzg