“Il Festival di Sanremo? Una grande kermesse che non muove interessi nell’industria discografica, ma solo nell’industria dell’intrattenimento”: così Sergio Cerruti, presidente dell’Afi (Associazione fonografici italiani), commenta i piazzamenti nella hit parade dei dischi dei cantanti che hanno partecipato quest’anno alla manifestazione e le performance in classifica delle canzoni presentate in gara. I dati, già riportati da Rockol, parlano chiaro: nei primi sette giorni successivi alla settimana del Festival, sullo streaming – che guida sempre di più i ricavi, rappresentando quasi la metà di quelli totali dell’industria discografica – le canzoni hanno ottenuto numeri di gran lunga inferiori a quelli dello scorso anno (4,5 milioni di ascolti per il vincitore Diodato e la sua “Fai rumore”, contro gli 8,2 di “Soldi” di Mahmood). Più rassicuranti i dati relativi ai passaggi radiofonici e ai piazzamenti in classifica, tanto per quanto riguarda gli album (sei dischi sanremesi in top ten, contro i due dello scorso anno) quanto i singoli (nove brani contro i sette del 2019).
Cerruti, cosa ci dicono queste cifre?
“Che il Festival di Sanremo è stato un grande show, ma non un grande Festival della Canzone Italiana. E che questa manifestazione è sempre di più incentrata sullo spettacolo e sempre meno incentrata sulla musica”.
Però i dati non sono poi così allarmanti, streaming a parte. Cosa la preoccupa?
“È vero, alle canzoni quest’anno in radio è andata meglio e ci potrebbe essere un incremento dei diritti connessi. Però se su Spotify il vincitore del Festival totalizza appena 4,5 milioni di stream, che sono nulla in confronto a quelli che fanno certi artisti indie e trap, considerando gli ottimi ascolti di quest’edizione, allora forse un problema c’è”.
E qual è?
“Al Festival sono stati portati i comici, gli abiti di alta moda, le malattie, ma la musica lì non gira. Invece all’estero ci sono eventi come i Brit Awards, nel Regno Unito, in cui lo spettacolo lo fanno gli artisti musicali avvicendandosi l’uno con l’altro sul palco”.
Però Sanremo non è un evento come i Brit Awards: il Festival è una gara tra canzoni articolata in più serate e diventata negli anni un vero e proprio spettacolo televisivo, non una cerimonia di consegna di premi assegnati dall’industria discografica che si svolge in un’unica sera.
“Per questo motivo dico che bisognerebbe rivedere la modalità del format. Nelle scalette quest’anno sono saltati degli schemi. C’è stata una vera e propria debacle gestionale. Le persone che lavorano nell’organizzazione del Festival sono le stesse da anni. Forse c’è bisogno di un ricambio. Da presidente dell’Afi ho chiesto di poter essere firmatario del regolamento a partire dal prossimo anno: voglio dare il mio contributo e se ci saranno dei problemi sarò io a risponderne. Ho proposto alla Rai di convocare un tavolo tecnico a marzo: bisogna cominciare a lavorare subito, capire cosa non ha funzionato quest’anno e come migliorare il Festival”.
Cosa cambierebbe?
“Un’idea potrebbe essere quella di mantenere comunque le cinque serate, ma dividerle tra due di spettacolo e tre di gara. Bisognerebbe rivedere anche il discorso Nuove proposte: è un format che viene smontato e rimontato a seconda di chi è il direttore artistico. Il pubblico non fa in tempo ad abituarsi, che subito cambia il sistema. E poi da presidente dell’Associazione fonografici italiani chiedo che sia riconosciuta più importanza anche ai discografici, che devono riappropriarsi di un posto che nella filiera della musica hanno perso. Fino a qualche anno fa un rappresentante dell’associazione faceva parte dell’organizzazione. Oggi non è più così. Chi cura i nostri interessi lì dentro? Ci sono cose misteriose, come gli accoppiamenti dei giovani. E avrei qualcosa da ridire anche sulle votazioni”.
Prego.
“Perché non permettere al pubblico a casa di votare i cantanti tramite un’applicazione, gratuitamente, anziché spendere soldi con il televoto? Sarebbe più democratico”.
Le sue idee potrebbero essere interpretate da qualcuno come demagogiche.
“Non lo sono: le mie sono idee pratiche. L’analisi è negativa, ma io sono positivo. Vorrei lavorare per risolvere il problema. Non dico di stravolgere tutto, ma cambiare qualcosa si può: spesso la soluzione è a portata di mano”.
Torniamo un attimo ai numeri delle canzoni sulle piattaforme di streaming: sono inferiori rispetto a quelli dell’anno scorso, ma superiori a quelli del 2018. Le polemiche dell’anno scorso legate alla vittoria di Mahmood hanno avuto un ruolo nel boom? È stata solo un’eccezione?
“Non credo che le polemiche abbiano una diretta ricaduta sullo streaming. La lite tra Bugo e Morgan, ad esempio, non ha permesso a ‘Sincero’ di ottenere un piazzamento alto in classifica. Quello che bisognerebbe chiedersi è: ‘Le polemiche fanno meglio al Festival o ai cantanti?’. E bisogna tenere anche presente che dal 2018 ad oggi c’è stato un incremento notevole del mercato dello streaming, i cui numeri sono cresciuti esponenzialmente”.
La scorsa estate ha partecipato anche lei agli incontri con il direttore artistico Amadeus e l’organizzazione che si sono svolti tra Roma e Milano: qual è stato uno dei temi principali che avete affrontato?
“Quello relativo ai rimborsi erogati agli artisti in gara al Festival. Andare a Sanremo, per i cantanti e le relative case discografiche, è tutto fuorché economico. Gli emergenti ricevono tra i 6 e gli 8 mila euro per affrontare le spese relative alle varie attività nella fase iniziale, quella di Sanremo Giovani. Per i big parliamo di 55 mila euro di rimborsi spese, non di ingaggi. Troppo poco. È giusto che il direttore artistico faccia quello che vuole per offrire un grande spettacolo, ma gli artisti dovrebbero avere equi compensi per quello che fanno dentro e fuori il Teatro Ariston”.
Si riferisce alle esibizioni sul Nutella stage, il palco esterno all’Ariston che ha ospitato le esibizioni di alcuni ospiti quest’anno?
“Anche. I discografici non sapevano nulla del brand. Se mi fai esibire su un palco brandizzato allora devi darmi dei soldi, perché sto lavorando per un marchio”.
L’industria discografica dovrebbe farsi sentire di più?
“È così. Siamo come un’orchestra in cui ognuno suona una parte diversa. Non c’è coesione. Invece bisognerebbe lavorare in sinergia”.
Fonte: Rockol