Oltre le stelle (9)
Nel 2000, quando Il Mucchio Selvaggio era settimanale (la fase durò dall’ottobre 1996 al dicembre 2004), Gianluca Testani varò una simpatica rubrica che occupava due pagine in ogni numero. Si chiamava, appunto, “Oltre le stelle” ed era una sorta di appendice de “Le stelle del Mucchio”, la tabella nella quale i componenti dello staff della rivista assegnavano da sempre il loro “voto” – dalle cinque stelle di “imperdibile” alle due palle di “inascoltabile”, con in mezzo “formidabile”, “adorabile”, “apprezzabile”, “ascoltabile” e “prescindibile” – ad alcune decine di album di uscita recente. L’idea di Gianluca era semplice ed efficace: lui sceglieva uno di questi dischi, uno dei più importanti, e cinque o sei di noi altri dovevano commentarlo in circa mille caratteri, privilegiando i toni discorsivi ed evitando quelli da recensione. Insomma, più che il “critico” scriveva l’appassionato, a ruota libera e in prima persona.
Consapevole che con il senno di poi spesso non mi trovo più d’accordo con me, anche per colpa di ascolti non sempre approfonditi e dello spirito ludico della rubrica, in questo spazio riproporrò via via tutti i miei “Oltre le stelle”, in ordine cronologico, cinque per volta.
NICK CAVE
No More Shall We Part
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Se ad essere chiamato in causa fosse stato il Guglielmi “critico”, le stelle per No More Shall We Part sarebbero “soltanto” tre, se non altro perchè nella stratosferica discografia dell’ex leader dei Birthday Party ci sono titoli (seppur di poco) migliori. Se invece, come in questo caso, il parere è richiesto al Guglielmi semplice appassionato… beh, le quattro sono d’obbligo, visto che nella concezione del suddetto il ruolo ricoperto da Nick Cave è paragonabile a quello del Papa per un cattolico praticante. Al di là di ogni ulteriore considerazione, quest’album del sospirato ritorno dopo quattro anni di quasi totale assenza dal mercato è comunque uno dei più intensi, equilibrati e ricchi di fascino offertici dal Grande Australiano, impeccabile nel fondere luci e ombre in un suono classico e nello stesso tempo personalissimo. Non ho nient’altro da aggiungere, davvero: adoro questo disco, dalla prima all’ultima nota. E mi dispiace per chi non la pensa allo stesso modo.
(da Il Mucchio Selvaggio n.450 del 10 luglio 2001)
MANIC STREET PREACHERS
Know Your Enemy
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Mah. Ho passato parecchi anni rispondendo mah alle richieste di giudizio sui Manic Street Preachers: mah come per gli Ocean Colour Scene, i Cast, i Counting Crows e mille altre band delle quali al momento non mi vengono in mente i nomi, che l’esperienza mi indica come capaci solo di routine e che quindi mi predispongono a una valutazione interlocutoria. Per Know Your Enemy, invece, il mah è diventato buono, che in un panorama musicale all’insegna dell’aurea mediocritas come l’attuale non è comunque granchè. Quindi, un album globalmente gradevole, che al di là delle stucchevolezze nel lavoro di studio dà a tratti l’impressione di poter andare da qualche parte… salvo smentirsi con tracce come Miss Europa Disco Dancer, che rimane sulla griglia di partenza come la McLaren di Hakkinen. Comunque, un lavoro che in generale non sembra sapere cosa significhi emozione vera. O che, se lo sa, lo spiega con un linguaggio che io non riesco a capire.
(da Il Mucchio Selvaggio n.451 del 17 luglio 2001)
R.E.M.
Reveal
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Starei sicuramente malissimo, se un giorno dovessi rimanere deluso da un disco dei R.E.M.: ovvio, visto che il triste evento non si è finora mai verificato – e io la band di Athens la seguo da sempre: dovrà ben servire a qualcosa, avere quarantun’anni – e che quindi il periodico rinnovo del sentimento nei confronti del gruppo è da annoverare tra le certezze della mia vita. Di Reveal, come sapete, ho già scritto ai tempi dell’uscita, e da quel giorno non faccio che spargere stelline e trovare quasi tutti gli altri nuovi dischi che ascolto mediocri: succede, con simili termini di paragone, e succede ancor di più quando assieme ai R.E.M. escono (come ora!) album di Nick Cave e Mark Lanegan. Che mai potrei aggiungere, alla recensione di tre mesi fa? Nulla. Anzi, no, una cosa c’è: che nonostante le abbia ascoltate almeno un centinaio di volte, All The Way To Reno, She Just Wants To Be o Disappear continuano a riempirmi meravigliosamente gli occhi di lacrime.
(da Il Mucchio Selvaggio n.452 del 24 luglio 2001)
MOGWAI
Rock Action
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Come chi ha letto la mia recensione sul Mucchio Extra avrà forse intuito, la quarta stella non c’è solo perchè ritengo che i Mogwai siano in grado di fare ancora di più. E perchè, pur condividendo la tesi di chi afferma che un disco breve ma di alta qualità è sempre meglio di uno lungo pieno di riempitivi, trovo che – soprattutto per un album appartenente a questa area musicale – trentotto minuti siano davvero pochini: che male potevano fare un paio di brani in più, magari cantati? Chiariti questi punti, dei cinque di Glasgow non posso dire che bene. Anzi, benissimo. Sono intensi, profondi, evocativi, solenni nel loro minimalismo, ombrosi, paradisiaci eppure un po’ inquietanti. Perfetti, o quantomeno molto vicini a quella cosa indefinibile e per fortuna irraggiungibile che chiamiamo perfezione. Anche se di Come On Die Youngfanno parte un paio di canzoni ancor più superlative (si può dire? Mi suona strano, ma rende bene l’idea), Rock Action è il loro titolo che preferisco. E ognuno dei suoi minuti vale ampiamente le mille lire (o il mezzo euro) richieste.
(da Il Mucchio Selvaggio n.453 dell’11 settembre 2001)
MARK EITZEL
The Invisible Man
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Pur seguendolo dall’inizio della sua avventura con gli American Music Club, e pur avendone più o meno sempre apprezzato i dischi, non mi sono mai davvero innamorato di Mark Eitzel: da una parte un po’ troppo sofisticato, il Nostro, e dall’altra un po’ troppo triste. Sarà magari l’avanzare dell’età (di entrambi), ma oggi l’artista di San Francisco mi prende di più: i suoi brani lenti, soffici e meditabondi continuano a non essere l’ideale colonna sonora per una giornata uggiosa, ma non si può negare che la loro perfezione formale e la loro intensità non sono di quelle in cui ci si imbatte tutti i giorni, e nemmeno tutti i mesi. Per The Invisible Man tre stelle sono forse appena eccessive, ma due sarebbero state poche: non fosse altro che per la presenza tra i suoi solchi di Proclaim Your Joy, semplice ma indimenticabile, nel cui titolo piace leggere una specie di manifesto d’intenti.
(da Il Mucchio Selvaggio n.454 del 18 settembre 2001)