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Torna la rubrica con la rassegna di articoli di Riccardo De Stefano sulla Musica Attuale: “Ainé: Niente di Me, tutto di me | Intervista”

29 aprile 2019

Ainé: Niente di Me, tutto di me | Intervista

By Riccardo De Stefano 3 Aprile 2019 su:

Ainé: Niente di Me, tutto di me | Intervista

 Foto di Danilo D’Auria –

Sembra che ci sia più America che Italia nel sangue di Ainé. La vena soul, r’n’b e hip hop ha contraddistinto da sempre il sound di un artista che ha saputo conquistarsi il suo spazio all’interno di una nicchia che in Italia – e solo in Italia – è stata considerata secondaria. Con Niente di me Ainé però ha saputo fondere quelle due anime che da sempre lo contraddistinguono, tirando fuori un album che si lancia come un episodio quasi unico nel panorama nostrano: un lavoro italiano, nei testi e nel piazzamento, ma che suoni internazionale senza forzature, senza velleità. Non a caso Ainé ne è ben conscio, delle sue potenzialità, e di tutto il percorso che gli ha permesso di realizzare un album del genere.

Come va questo periodo? Il disco è uscito da un mese ormai. Come vedi che il disco sia stato assorbito dal pubblico e dagli addetti?

È stata una bellissima sorpresa: abbiamo avuto molta attenzione e critiche positive, sia dai giornalisti che dalla fan base. È piaciuto e abbiamo raggiunto alcuni importanti traguardi sullo streaming. Penso che meglio di così non poteva iniziare.

Qual è il punto di svolta di Niente di me? L’italiano è stato un compromesso di mercato oppure un modo di raccontare qualcos’altro?

Niente di me è un nuovo punto di partenza, perché è una evoluzione dai progetti precedenti, ma è stata una evoluzione naturale: volevamo dare un suono più moderno, capace di mantenere però un’anima “classica”. Abbiamo inserito diverse sfaccettature rock, pop, hip hop: un insieme di elementi che fosse capace di dare un suono caldo, ma anche nuovo, quindi fresco. Credo ci siamo riusciti.

In quest’epoca di retromania, dove si recupera molto il passato, al punto da espoliarlo, dove si trova la modernità nella musica?

La cosa principale è l’ascolto: ascoltare roba nuova, diversa e rendersi conto di quanti artisti fanno uscire lavori nuovi ogni mese. Non bisogna mai accasarsi o rimanere fermi, la musica va avanti velocissima e bisogna essere pronti per il futuro, restando aggiornati sulle sonorità del mondo.

Il tuo sound è uno dei più internazionali del panorama italiano. Essere così soul, un genere non comune in Italia, lo hai avvertito come un limite?

No, è stata una diversità, e quindi è stato sicuramente più duro andare avanti, perché siamo in pochi a farlo, ma col passare del tempo abbiamo conquistato sempre più credibilità. Siamo stati tra i primi a suonare in un certo modo in italia, e con una preparazione dietro particolare, e sia i fan che gli altri artisti lo sanno: avere avuto un certo rispetto da loro è stato importante. Adesso poi ci siamo conquistati un sound ancora più personale.

C’è tanta r’n’b e black music, che negli USA è stato l’elemento dirompente della “scena”. Da noi no, perché?

C’è sempre stato l’hip hop, il soul e la black music. La differenza è che in Italia in pochi l’hanno fatta come si deve, cioè bene, e infatti il pubblico e gli artisti se ne sono accorti quando questo genere è stato fatto in un certo modo, che sia stato fatto da me o da altri colleghi: quindi siamo diventati un piccolo punto di riferimento. La differenza è sempre nella qualità: io ho studiato fuori dall’Italia, vengo da quella musica lì e so cosa vuole il pubblico che segue questo filone. Questo album, oltre il soul e l’hip hop, ha anche tanto pop: è un album più appetibile a un grande numero di pubblico, e anche i numeri attuali lo confermano. Siamo riusciti a trovare una quadra e a riassumere più ambienti sonori.

Siamo in un’epoca dove “pop” ha smesso di essere una parolaccia. Oggi è tornato ad essere il linguaggio universale, e non solo della musica.

Ma se fai rap non è che sei figo, è sempre una questione di qualità. Fa figo la musica figa e la musica brutta rimane brutta. Non ci sono più generi: il jazz può diventare pop e tutto confluire nell’hip hop. Noi dobbiamo solo stare al passo con i tempi.

Niente di me, già come titolo, fa strano, quasi negativo. C’è tanta presenza della persona, o personaggio, nella musica e il titolo sembra negarlo.

È una provocazione, un titolo ironico. Volevamo colpire e ci siamo riusciti, a giudicare dalla reazione delle persone. L’intento era di fare qualcosa di diverso: “niente di me” significa che l’ascoltatore può scegliere e prendere o tutto o niente di me.

Il disco si apre con Ascolta bene, che sembra essere una sorta di riflessione sulla scena musicale, quando dici “non sono solo io, me lo sento, in mezzo al buio”. Ma ti ci senti, solo?

È una riflessione legata al passato. Non penso di essere più solo, anzi, siamo sempre di più. Tutte le cose che ho vissuto e che ho passato mi hanno portato a scrivere la canzone, ma nel presente c’è sempre più luce in quel buio.

Il disco è stato arrangiato e prodotto in band, con un lavoro comunitario. È un processo nuovo? Come ti sei ritrovato a lavorare in questa maniera?

Ho sempre voluto dare un suono omogeneo e vero, e penso di esserci riuscito perché abbiamo lavorato di insieme. Siamo stati in studio con la band per un paio di settimane, dove abbiamo arrangiato e prodotto l’album tutti insieme. Non è un disco perfetto, ed è per questo che è un disco bello. Anche l’imperfezione diventa bella quando sei in gruppo.

Il disco è in analogico, registrato, cito, “alla vecchia maniera”. Sei nostalgico delle vecchie maniere?

Sono un amante del passato, del cantautorato, da Dalla a Pino Daniele, da Battisti a Gaber. Sono un grande ascoltatore e amante della musica italiana e del lavoro dei grandi artisti. Volevo rifare qualcosa che mi piacesse da questo punto di vista, per questo ho realizzato tutti i brani in italiano.

Scrivere in italiano com’è stato? Molti sono abulici nello scrivere i testi, tu mi sembri molto attento e parsimonioso nella scelta delle parole.

Sono tutte parole venute da una riflessione sui momenti che ho vissuto, magari anche cose difficili. In ogni canzone ripeto qualcosa che è successo nelle precedenti, come fosse un discorso unico, complessivo. Mi piace ripetere alcuni concetti che per me sono importanti.

Hai avuto due esperienze, nel tuo passato, molto significative e in un certo senso complementari: ti sei avvicinato al circuito di Amici nel 2010 e poi hai studiato all’estero alla Berklee College of Music. Che cosa ti hanno dato questi due mondi così diversi?

Sono state esperienze importanti. Ad Amici in realtà ho fatto solo dei provini, non ho partecipato al programma. Avevo 17 anni e poca esperienza. Boston è stata invece una grande esperienza formativa, fondamentale: prendere una borsa di studio negli Stati uniti mi ha permesso di fare grandi passi avanti e mettermi in contatto con un mondo professionale incredibile. Mi ha cambiato molto.

Hai parlato prima di musica “di qualità” e musica di “non qualità”. Dove pensi che oggi sia la prima?

A me piace molta musica che si fa qui da noi, da Jovanotti, Giorgia, Elisa o la Michielin a Willie Peyote, Mecna, Franco126, Giorgio Poi, Calcutta. Riesco a trovare qualcosa di interessante in tante cose. Penso che sia bello che si riesca ad avere così tanta musica di qualità, e poi alcuni sono anche amici.

Non a caso Mecna e Willie Peyote li hai voluti come collaborazioni in questo album.

Loro sono amici, come dicevo. C’era già un rapporto umano ed è stato semplice fare una canzone insieme. C’è una grande stima reciproca quindi è stato tutto nel massimo della naturalezza e “presa a bene”. I brani sono piaciuti soprattutto ai fan, il che è appagante.

Anche con Giorgia hai collaborato, per un duetto: “Stay”, rifacimento di Rihanna con Mikky Ekko, sul suo nuovo disco.

È stata una grandissima sorpresa: è successo inaspettatamente da un giorno all’altro, su Instagram, mi ha chiesto se volessi duettare con lei, in un disco dove c’era Tiziano Ferro o Elisa, per me è stato incredibile.

Se ti dovessi invece chiedere tre nomi internazionali che magari in Italia non vengono considerati?

Dovrebbero ascoltarsi tutti Mac Miller, Anderson .Paak e il terzo non lo dico!

Il disco ha molte anime: quella soul, quella pop, e tanto altro in mezzo. Il pubblico italiano in cosa dovrebbe ritrovare il vero Ainé e in cosa ritrova se stesso? Nella parte testuale, o nella complessità musicale che per un certo pubblico sembra essere uno scoglio?

Non penso ci sia alcuno scoglio in questo album. Sono canzoni semplici e non c’è niente di strano o difficile. Nei testi possono ritrovarsi in quello che vogliono: ho scritto questo album per musica e testi senza pensare al pubblico e cosa avrebbe potuto prendere da questo lavoro. Ho fatto il mio e sto già pensando al prossimo album.

I live sono il tuo punto forte: hai sempre dedicato una grande attenzione e una ricerca a riguardo. Ci stai lavorando?

Il tour da febbraio e marzo raggiungerà tutta Italia. Sarà uno show diverso, più lungo, con ospiti. Non si può dire però quello che succederà, perché va vissuto. Chi viene saprà.

Come convinceresti qualcuno a venire – e a ballare – al concerto?

Se vieni a un mio concerto è impossibile rimanere fermi. Ci pensa la musica a farti muovere il culo. Su questo sono abbastanza tranquillo!

 

Torna la rubrica con la rassegna di articoli di Riccardo De Stefano sulla Musica Attuale: “Ainé: Niente di Me, tutto di me | Intervista” was last modified: aprile 29th, 2019 by Giordano SanGiorgi
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