Ligabue (1999-2016)
Jeff Buckley – Mojo Pin
Jimi Hendrix – Foxy Lady
U2 – Ultraviolet
Neil Young – Only Love Can Break Your Heart
Radiohead – Fake Plastic Trees
Rolling Stones – You Gotta Move
Nirvana – Comes As You Are
Nick Drake – Pink Moon
Bob Dylan – Visions Of Johanna
Miss Mondo
(Warner)
A parte le stimmate del rocker di razza, il talento compositivo e una schiettezza di fondo non intaccata dai successi, ci sono almeno un altro paio di elementi che contribuiscono a rendere Luciano Ligabue un artista fuori dall’ordinario: l’equilibrio strumentale e lirico di tutti i suoi brani, frutto di un perfezionismo che non sconfina peraltro nell’eccesso, e la sua immediata riconoscibilità, che non verrebbe probabilmente meno neppure se la caratteristica voce e il non meno tipico approccio alla scrittura fossero accostati a tappeti strumentali drum’n’bass o post-grunge.Di tali qualità fa sfoggio anche Miss Mondo, che segue di ben quattro anni l’acclamato Buon compleanno Elvis – ma in mezzo ci sono stati il doppio dal vivo Su e giù da un palco e la sorprendente parentesi cinematografica di Radiofreccia – e che ha anticipato i propri umori musicali e “concettuali” con il singolo Una vita da mediano: una ballata intensa (e nell’album le ballate surclassano numericamente i rock’n’roll), con il mondo del Calcio assunto a possibile metafora della vita (e nei testi, in generale, l’indole riflessiva domina quella giocosa), impreziosita dalle parti di chitarra acustica (cruciali, con i loro suoni a tratti mandolineggianti, in vari altri episodi) e arricchita nel finale dagli arrangiamenti d’archi di Piero Milesi (la cui presenza, sobria ed efficace, è un ulteriore leitmotiv del disco); non c’è quindi da stupirsi che Liga, da sempre poco propenso a scendere a patti con la propria coerenza, lo abbia scelto come biglietto da visita preferendolo alle più vivaci ed energiche Si viene e si va (la nuova Balliamo sul mondo?) e L’odore del sesso, o a quelle Miss Mondo ‘99 e Sulla mia strada anch’esse adagiate – ma con maggiori verve e profondità – sugli schemi del classico rock’n’roll “alla Ligabue”.
Prodotto con estrema raffinatezza ma non sterilmente leccato, Miss Mondo ‘99 esalta dunque – attraverso ritmiche fantasiose, accurati ceselli di chitarre e calde fiammate di tastiere – il soffice intimismo (a volte) velato di malinconia del rocker di Correggio, straordinariamente fascinoso in Key è stata qui e Forse mi trovo (nelle quali è possibile rinvenire tracce di obliquità melodica quasi REMiana) e appena meno incisivo in Almeno credo, E…, Uno dei tanti, Da adesso in poi e la dolce La porta dei sogniposta in chiusura di solchi. Menzione di merito anche per la suggestiva Non fai più male (inserita solo nel CD-singolo e nell’edizione 33 giri: bravo Luciano, il vinile deve vivere!), piuttosto eterea e resa particolare da insoliti giochi di tastiere; non convince, invece, il brano più stravagante della raccolta, Baby è un mondo super, con le sue strutture spezzate, la sua sovrabbondanza di toni bassi e certe sue singolari linee canore, per di più legate a un testo non proprio poetico: con soluzioni più coatte, sarebbe quasi da Vasco Rossi.
Tutto come da previsioni, insomma? Per quanto riguarda il livello compositivo, la lucidità del progetto e la perizia della backing band (il rodato quartetto Previte-Poggipollini-Pellati-Righetti, con l’ingegnere del suono Fabrizio Simoncioni nel ruolo di tastierista), la risposta può essere solo affermativa. Le novità di arrangiamento – non semplici dettagli, al di là di quanto suggerito dal primo ascolto – e la vena più matura delle liriche (maggiore universalità e minore “retorica”) dicono però di un Ligabue creativamente ed emotivamente dinamico. E sempre ben attento ad evitare pericolose discordanze tra la persona che continua a seguire il proprio sogno e il personaggio osannato dalle masse.
(da Il Mucchio Selvaggio n.364 del 14 settembre 1999)
Fuori come va?
(Warner)
Poco più di due anni e mezzo fa, Miss Mondo aveva mostrato un nuovo volto di Luciano Ligabue: quello del musicista vero che, senza deviare dalla sua consueta linea espressiva all’insegna del rock filo-americano, tantava di battere una strada (per lui) di maggior “ricerca” azzardando suoni più sofisticati e internazionali e dedicandosi più alle ballate introspettive che non a brani fisici e di immediato impatto. Una scelta apprezzata da buona parte della critica ma forse non compresa fino in fondo dal grande pubblico, che ha accolto l’album – peraltro vendutissimo – con entusiasmo inferiore alle attese.
Pur conoscendo la sincerità dell’artista e il suo desiderio di tenersi alla larga dai luoghi comuni del music-biz, ci riesce però difficile credere che le parziali delusioni – si sa, tutto è relativo – del precedente lavoro non abbiano in qualche modo influito, magari solo in termini di fretta di esorcizzarle con un altro disco, su questo Fuori come va?, che non a caso segna un doppio ritorno: alla (co)produzione, ineccepibile ma più “classica”, di Fabrizio Barbacci, e agli schemi più convenzionali del rock-pop “alla Ligabue”. Questione di sfumature? Non c’è dubbio, anche se la positiva sensazione di crescita progettuale e di spessore riscontrata in Miss Mondosembra oggi essere soffocata dall’effetto déjà vu, oltretutto scandito da canzoni che in più di una circostanza non brillano come dovrebbero per incisività e ispirazione. Da Libera uscita (già nella colonna sonora di Da zero a dieci), un autentico “infortunio”, ai singoli Questa è la mia vita(sempre dal film) e Tutti vogliono viaggiare in prima, che seppur con arguzia tendono abbastanza al nazionalpopolare, fino alle robuste Nato per me e In pieno rock’n’roll, l’album corre infatti sui binari di uno stile consolidato e (almeno per i fan) rassicurante, dove affiora di frequente il gusto dell’autocitazione; in tale quadro spiccano comunque ballate intense e toccanti (Ti sento, una Tu che conosci il cielo che avrebbe meritato un ritornello più efficace, la più vigorosa Voglio volere) e soprattutto la splendida Eri bellissima, che con il suo sapiente equilibrio di energia e malinconia rivendica autorevolmente un posto tra i capolavori del rocker di Correggio.
Si poteva fare e dare di più, insomma? Con rammarico, non possiamo che confermare. Fuori come va? potrà anche ottenere un clamoroso successo, ma non verrà certo ricordato come l’album più significativo e riuscito di Luciano Ligabue.
(da Il Mucchio Selvaggio n.486 del 14 maggio 2002)
Nome e cognome
(Warner)
Per Ligabue, come per tutti gli artisti che vantano un ampio seguito di pubblico e sono quindi permanentemente sotto l’occhio di bue dei media, il problema di ogni nuovo disco è molto spesso di aspettative: la solita dicotomia, insomma, tra il cosa ha fatto e i troppi personalissimi cosa avrebbe dovuto fare. Io, per esempio, un piccolo sogno lo cullavo: che Luciano, sulla scia dell’eccellente tour teatrale del 2003, imponesse un temporaneo “rompete le righe” ai suoi collaboratori e si chiudesse in casa con Mauro Pagani a concepire il suo Nebraska… e amen se le radio avessero storto la bocca, se i relativi concerti fossero stati tenuti in luoghi più raccolti e se la Warner avesse ingoiato il rospo di introiti inferiori al previsto. Un sogno, sì, che tengo buono per la prossima volta… perché in quest’occasione il Nostro voleva continuare a fare Ligabue e Ligabue ha fatto, con tutti i pro e i contro che tale scelta comporta. Ha, in estrema sintesi, seguito la comoda scia del precedente e nient’affatto irresistibile Fuori come va?, adagiandosi ancora su un rock mainstream che non indispettisce ma neppure esalta: un rock che come da copione si divide tra energici inni e ballate avvolgenti, restando legato a quello che ormai da tempo – se si eccettua il bel tentativo di crescita di Miss Mondo, purtroppo semi abiurato – è a tutti gli effetti un cliché; Vasco per i coatti e i balordi, Luciano per i romantici e gli idealisti che cercano una speranza in dischi, film e libri, e che se vedono una luce in fondo al tunnel non pensano che sia per forza un treno. Infatti, se c’è una cosa che a Nome e cognome proprio manca, è la sorpresa: dalla copertina, come sempre di rara bruttezza, ai temi dei testi e al modo di affrontarli conferendo toni quasi epici alla quotidianità, fino alle architetture musicali di brani che rimandano esplicitamente a questo o quell’episodio del repertorio storico. Ok, la presenza del coproduttore “modernista” Luca Pernici a fianco del veterano e “classicista” Fabrizio Barbacci ha portato qualche leggera rettifica del canovaccio sonoro (così come, e non potrebbe essere altrimenti, le nuove entrate nella backing band), ma sono sfumature piuttosto ininfluenti, impercettibili per la stragrande maggioranza di una platea che in fondo non vuole metamorfosi ma solo rassicuranti certezze. E belle canzoni, dove “bello” significa melodie, hooklines, parole giuste al posto giusto, buoni sentimenti uniti a un pizzico di innocua trasgressione: materie, queste, in cui Ligabue è maestro, sostenuto dall’indole, dalla purezza di spirito e dall’umiltà. Perché lui non esce dal seminato, non vuole strafare (oddio, forse a Campovolo…), non è interessato a essere diverso da quel che è. E se magari l’ispirazione latita, a metterci una pezza provvede il mestiere accumulato in ormai quasi vent’anni di carriera: ma senza malizia, senza trucchetti da prestigiatore del pentagramma e/o dello studio, senza quell’enfasi un po’ cialtrona sotto la quale altri cercano di seppellire le proprie magagne.
Titolo azzeccatissimo, Nome e cognome (di meglio si poteva trovare solo Luciano Ligabue…), per un disco che fotografa il quarantacinquenne di Correggio senza filtri o correzioni al Photoshop: vale a dire con i suoi guizzi poetici in grado di incidere nel cuore e con una ripetitività di songwriting che i fan leggono come segno di fedeltà alla linea e stile, gli indifferenti come normale, inevitabile carenza di idee e i detrattori come sfacciato riciclaggio a scopo di lucro. Il sottoscritto, estimatore non pentito cui l’etica professionale impone obiettività e cinismo, non può comunque non rilevare la sostanziale prevedibilità di un lavoro in cui non mancano momenti di pregio – ciascuno vi troverà i propri: i miei, per la cronaca, sono Cosa vuoi che sia tra i “lenti” e Vivere a orecchio tra gli “svelti” – ma dove la sensazione dominante è quella di déjà vu; il che non è necessariamente un male, ma nemmeno lo strumento idoneo a scardinare le convinzioni di quanti non considerano Ligabue il Bruce Springsteen dell’Emilia bensì, più prosaicamente, il suo Jon Bon Jovi. Come si diceva in apertura, il problema è soprattutto nelle aspettative, e se è vero che “chi si accontenta gode” non è meno vero che gode “così così”: lo cantava proprio Luciano, otto anni fa, ed è lecito supporre che la sua coerenza gli impedirebbe di rimangiarsi l’affermazione.
(da Il Mucchio Selvaggio n.615 dell’ottobre 2005)
Arrivederci, mostro!
(Warner)
Caro Luciano, spero non te ne avrai a male per questa “lettera aperta”. Del resto, l’idea me l’hai data proprio tu con Caro il mio Francesco, la tua personale, esplicita “avvelenata” che però – scusa se mi permetto – avrebbe potuto, e dovuto, essere sviluppata meglio, sul piano poetico e sotto il profilo della focalizzazione. Di sicuro replicherai che è stata scritta di getto e così l’hai voluta lasciare… ma, dai, il tuo attimo di pur legittimo sconforto meritava di più, così come meritava di più il concept – l’esorcismo dei grandi e piccoli orrori della vita – attorno al quale hai costruito questo tuo ottavo, “vero” album. Poteva finalmente essere l’occasione giusta per quel disco coraggioso che avresti tutte le carte in regola per realizzare e che, invece, continui masochisticamente a sacrificare sull’altare del nazionalpopolare: masochisticamente perché, oltre a quella del pubblico di massa, tu vorresti anche l’approvazione di quelli come te (noi), i true believers del r’n’r, che in massima parte ti schifano reputandoti “appena meglio” di Vasco Rossi.
Mi dirai che Arrivederci, mostro! in qualche modo devia dalla tua solita strada, grazie al “nuovo” produttore Corrado Rustici e a qualche brano per te atipico (ne cito tre: la sanguigna, bellissima La verità è una scelta, la pacata e inquietante Quando mi vieni a prendere? e la loro nemesi, quell’infelice divertissement che è Taca banda). Ed è vero, non lo nego… ma la vasta platea che ti osanna bada solo alle melodie e alle parole, non sa cosa significhi “produzione” e distingue a malapena una chitarra da un basso, figuriamoci una Gretsch da una Gibson. E allora, ti (e mi) chiedo, perché accidenti non lo fai – accanto a lavori nella (tua) media come questo – l’album in grado di convincere gli snobboni che non sei “appena meglio” del becero? Potresti farlo scaricare gratis sul tuo sito, magari confezionandone una tiratura limitata solo in vinile e a culo tutto il resto: il tarlo che ti rode dentro scomparirebbe e i tuoi detrattori sarebbero zittiti. Pensaci, dai. Con stima e affetto, tuo Federico Guglielmi
(da Il Mucchio Selvaggio n.671 del giugno 2010)
Made In Italy
(Warner)
Da una quindicina di anni, gli album di Ligabue non sono esattamente fulmini di guerra. Coerenti con il percorso del cantautore rock emiliano, questo sì, e sempre caratterizzati da qualche piccolo aggiustamento di rotta e qualche zampata di ispirazione superiore, ma nella sostanza prevedibili; i tipici lavori, insomma, da artista che ha ottenuto il grande successo con un modello e che quindi continua a dare al suo pubblico ciò che vuole, evitando di rischiare davvero. Made In Italy, invece, è un disco diverso, che magari non sarà ricordato come primo atto di una svolta stilistica, ma nel quale si respira senza dubbio altra aria. Non che Luciano sia diventato un musicista neoclassico o un rapper, questo no: è ancora lui, con il suo rock ruspante e melodico, il suo inconfondibile approccio canoro e i suoi testi nei quali è facile per quasi chiunque riconoscersi, ma per questi quattordici episodi organizzati nel formato del concept – tipico di quei ‘70 che del Nostro hanno visto la crescita, come appassionato cultore di rock prima che come songwriter, interprete e performer: qui il tema è un viaggio in Italia che è ovviamente soprattutto un viaggio di vita – il Liga ha elaborato strutture e arrangiamenti che affondano le loro radici nel blues, nel funk, nel R&B e nel soul, con effetti benefici sulla brillantezza, sulla vivacità e sulla novità del sound.
Al di là di un paio di passi falsi, come ad esempio la title track, la sintesi è felice e coglie nel segno, e brani come La vita facile (un r’n’r alla Who), Mi chiamano tutti Riko (dal piglio funk), l’energica e intensa L’occhio del ciclone o la ballad Ho fatto in tempo ad avere un futuro incarnano al meglio l’ottimo momento creativo; espresso, ed è una bella cosa, pure nella cura dedicata a ogni dettaglio, persino più certosina del solito.
(da AudioReview n.383 del gennaio 2017)