Il Wall Street Journal ha calcolato che dal giugno 2020 circa 29.800 NFT nella cui vendita primaria erano coinvolti artisti ha generato ricavi per $42,5 milioni. Nell’articolo si evidenzia come questo fatturato sia ripartibile al 50% cadauno tra “visual artists” e artisti musicali.
La quota di questi ultimi, secondo il quotidiano economico americano, sarebbe ulteriormente suddivisibile a metà, quindi con un 25% del totale cadauno appannaggio dei performer e degli aventi diritto.
A tal proposito, in questo pezzo abbiamo proposto una panoramica di cosa e a quanto una manciata di artisti pionieri hanno venduto via NFT.
E’ una bolla?
Chi lo sa. Però ci sono buone ragioni per non liquidare il binomio NFT-Musica come puro hype. Non foss’altro perchè gli NFT stanno offrendo all’industria una prospettiva diversa, fresca e alternativa. La loro diretta correlazione con la tecnologia blockchain non significa che promettano gli stessi risultati o ambiscano ad analoghi obiettivi. La blockchain guardava e guarda all’industria musicale per quanto attiene alle licenze e ai diritti. Gli NFT invece puntano sulle esperienze che gli artisti possono offrire ai loro fans.
Qual è il terreno di coltura del fenomeno degli NFT
Soprattutto nella musica, è il risultato di un combinato disposto di “drop culture”, di espansione delle criptovalute, della tendenza alla detenzione e non-cessione dei propri master, nonché degli effetti della pandemia, sia come surrogato di ciò che ci manca a causa del distanziamento sociale, sia come ricerca spasmodica di qualsiasi mezzo di monetizzazione alternativo alle attività fisiche e in presenza scomparse dal novero delle cose fattibili.
Oggi una nicchia, domani un mercato di massa
Oggi lo spaccato NFT / Musica è limitato a una nicchia di mercato in cui i protagonisti sono da un lato i leader tecnologici in tema di blockchain e cripto-valute e dall’altro le superstar con fan base molto estese. I prezzi degli articoli venduti sono fuori controllo perché si vendono all’asta serie limitate, in una metafora digital-musicale di quello che fanno Christie’s e Sotheby’s. Ma questo è solo il volto della bestia. Questo è l’hype. Il corpaccione della bestia è molto più esteso. Non è una nicchia, ma un mercato di massa: quello in cui, semplicemente, i fans potranno acquistare direttamente dagli artisti. Non roba rara e in modalità-asta. Semplicemente roba in vendita. Senza intermediari.
La promessa degli NFT non è arricchire a dismisura ma, coerentemente con quella della blockchain, è: archiviare un modello di business obsoleto e affermarne uno nuovo, grazie a costi minori e efficienza maggiore. Più in dettaglio: l’artista può assumere il controllo delle sue pubblicazioni (quali che siano i prodotti e i formati) perché la sua relazione con i fans diventa diretta, tracciabile e monetizzabile. Se poi – a seconda della piattaforma utilizzata (Nifty, SuperRare, Gateway, Foundation, Zora, Opensea…), del suo genere di appartenenza con i valori e i costumi che gli sono affini, dall’ampiezza della sua fanbase – l’artista decidesse di puntare comunque sulla scarsità e sull’asta, questo resterà ovviamente possibile. Ma la portata del fenomeno NFT è correlata alla capacità per l’artista di monetizzare facilmente, in alcuni casi monetizzando anche l’impagabile e l’incommensurabile. E’ correlata alla capacità di colmare la distanza tra fisico e digitale, di valorizzare il D2C, di rivoluzionare la distribuzione del merchandise sganciandolo dalla quasi esclusiva presenza sui banchetti fuori dai concerti. E, certamente, è correlata anche alla capacità di tracciare le transazioni conteggiando ed erogando a dovere le royalties, non soltanto sul mercato primario (prima vendita) ma anche su quello secondario (rivendite successive).
Difficile – anzi: impossibile – che le label più intraprendenti non individuino un modo per partecipare al nuovo modello.