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Torna anche questa settimana “Schegge Indipendenti”, gli articoli storici sulla Musica Italiana di Federico Guglielmi: “Dove va il rock italiano?”

13 febbraio 2019

Dove va il rock italiano?

Pubblicato il novembre 26, 2014 da federicoguglielmi su:
https://lultimathule.wordpress.com/2014/11/26/dove-va-il-rock-italiano/

Rendendomene conto rimango basito, ma dalla pubblicazione di questo articolo sono trascorsi sei anni e mezzo; un‘eternità, più o meno, che lo rende una testimonianza storica e quindi meritevole di recupero in questa sede. Qualche spiegazione, però, bisogna darla, e allora eccola. Al tempo, il direttore del Mucchio era stato folgorato sulla via di Damasco, diciamo così, dal rock indipendente italiano; folgorazione dovuta, va da sé, a sollecitazioni esterne, per via della quale la nostra scena underground era diventata all‘improvviso meritevole di grande attenzione e quindi di propaganda a tappeto. In questo, è logico, non potevo trovare qualcosa di sbagliato, visto che il mio sbattimento a favore della causa era iniziato nel 1980; e poi, tranne che nel primissimo periodo in cui la faccenda era guardata con sospetto, per occuparmi della cosiddetta scena avevo sempre avuto carta bianca, come dimostrano le centinaia di articoli e le decine di copertine realizzate soprattutto nel periodo – 1996-2004 – in cui la rivista aveva periodicità settimanale. Mentre l‘impeto pasionario (indotto) mi faceva solo sorridere, a lasciarmi perplesso erano le nuove modalità con le quali il giornale avrebbe dovuto occuparsi del fenomeno; così, onde evitare disastri tipo reclutamento di collaboratori improbabili, mi prestai ad assecondare gli entusiasmi e a confezionare una sorta di riepilogo di quanto stava accadendo. Ovviamente lo feci alla mia maniera, ovvero unendo in modo trasversale una serie di elementi. Chiaro, in tal senso, il sommario/occhiello del pezzo: “Considerazioni moderatamente sconclusionate sulla musica di casa nostra: un viaggio ondivago tra passato e presente, con l’obiettivo di fornire utili spunti di riflessione e, magari, cogliere qualche concreta ipotesi di futuro”.
Riletto oggi l‘articolo non mi sembra malaccio. Alcune ipotesi non si sono tradotte in realtà, ma nel complesso – a parte i nomi citati – potrebbe essere stato scritto ieri. Compresa, purtroppo, la conclusione dal sapore apocalittico.

“Nuovo rock italiano” è una definizione molto popolare che, nell’ambiente giornalistico e non solo, è utilizzata ormai da – magia dell’ossimoro! – una trentina di anni. Senza troppa fantasia, fu coniata a cavallo tra i ‘70 e gli ‘80 per quei gruppi e solisti che, ispirati dal punk e dalla new wave d’Oltremanica e Oltreoceano, predicavano più o meno nel deserto la necessità di un distacco dalle tradizioni affermatesi nella prima parte dei Seventies: in sintesi, canzone d’autore spesso di matrice politica per quanto riguarda i singoli e, nell’ambito delle band, assortite deviazioni – ora edulcorate e ora pseudo-avanguardiste – del Credo progressive. Anni duri, quelli, dove all’indifferenza e diffidenza del grande pubblico si contrapponevano l’entusiasmo e la passione di una ristretta cerchia di sostenitori del moderno: “geniali dilettanti in selvaggia parata”, per dirla con le parole (pur decontestualizzate) di Giovanni Lindo Ferretti, alieni e naïf, che rispondevano ai curiosi nomi di Skiantos e Confusional Quartet, Gaznevada e Art Fleury, Kaos Rock e Faust’O, da lì a poco pure Diaframma e Litfiba. C’era chi cantava in inglese e chi invece lo faceva in italiano (e il dibattito sulla “giusta” strada da seguire era molto acceso, fra quelli che suonavano così come tra coloro che si limitavano ad ascoltare), chi ci credeva davvero e chi magari no (ma tanto non aveva di meglio da fare, e allora perché non provarci?). Ed era comunque una questione totalmente “sotterranea”, fatta di piccoli locali, di piccole tirature (quando ci si arrivava, a pubblicare un vinile), di piccola notorietà circoscritta agli adepti che leggevano “Rockerilla” e “Il Mucchio Selvaggio”, di piccoli(ssimi) miti; e una bella recensione sulle due riviste bastava a creare un “caso” (piccolo, naturalmente) e a garantire concerti, passaggi su qualche radio “libera”, diffusione del disco nei negozi specializzati. Un altro mondo, dove logicamente non si andava tutti d’amore e d’accordo ma nel quale sembrava di riscontrare una sostanziale comunanza di intenti.

Ciò nonostante, il “nuovo rock italiano” rimase per parecchio tempo una mezza Cenerentola, sulla quale nessuna testata si sbilanciava sul serio: escludendo l’operazione filo-situazionista orchestrata da Red Ronnie, che nel giugno del 1983 riuscì a far mettere sulla prima pagina di “Rockstar” il cantante della meteora Hi-Fi Brothers (ma senza alcun articolo sul gruppo), le prime copertine a immortalare un italiano emergente furono quella di “Rockerilla” del marzo 1984 (i Neon, quali rappresentanti della scena fiorentina della quale si scriveva all’interno) e del febbraio 1985 (i Litfiba, in quanto vincitori del referendum annuale dei lettori). La prima autentica presa di posizione a favore di un nuovo talento fu dunque la nostra, che nel marzo 1985 ci presentammo in edicola con il volto di Piero Pelù, e una presentazione/intervista in anteprima di Desaparecido: per molti lettori, uno scandalo che faceva il paio con le due pagine concesse nel numero di febbraio ai Gang freschi dell’esordio Tribes’ Union, i primi a essere stati trattati fuori dalla rubrichina-ghetto “Targato Italia” (che dal 1980 rivestiva una funzione analoga a quella oggi svolta da “Fuori dal Mucchio”). Nel prosieguo degli ‘80 tutto divenne relativamente più semplice, con Litfiba, Diaframma, Gang e CCCP-Fedeli alla linea a raccogliere lodi e copertine. Copertine, però, realizzate più per ratificare una consacrazione (underground) di fatto già avvenuta che per affermare di aver visto in qualche giovane promettente il futuro del r’n’r autoctono.

Oggi, invece, il quadro è molto diverso. Avendo perso il loro ruolo di principale strumento di informazione, a favore del caotico e scomposto chiacchiericcio di blog, siti e forum, i giornali non sentono quasi più la responsabilità delle loro scelte e preferiscono (sempre sporadicamente, però) cogliere l’attimo, fungendo semplicemente da cassa di risonanza ai “fenomeni” lanciati e consolidati dal Web. Un esempio in tal senso fu la copertina che “Rumore” concesse tre anni fa agli Offlaga Disco Pax (con un disegno di Lenin e non con una loro foto), a suggello dell’interesse cresciuto attorno al debutto discografico del terzetto emiliano: senza dubbio nessuno pensava che Max Collini e soci fossero destinati a lunga e luminosa carriera, ma nella primavera del 2005 erano il nome del momento e allora perché no? Non a caso, quando qualche mese fa è uscito il secondo album Bachelite (per certi versi anche migliore di Socialismo tascabile, benché palesemente ricalcato sui suoi schemi) l’accoglienza dei media – tutti i media, non solo di “Rumore” – è stata “di circostanza”, simile a quella che si riserva alle glorie del passato. Non c’è da stupirsene, in questi tempi di consumo sempre più veloce e di dischi che, per colpa della frenesia della Rete, sono considerati vecchi prima ancora di aver visto la luce nella loro forma fisica. Un altro caso eclatante è quello, recentissimo, di Vasco Brondi alias Le luci della centrale elettrica, sulla bocca di tutto il circuito indie (e dintorni) grazie alla copertina di “Blow Up” del maggio scorso e alla divisione del pubblico che ne è immediatamente derivata, con alternanza di esaltazioni e stroncature: cantautore tanto istintivo e minimale nelle musiche quanto crudo e visionario (e citazionista) nei testi, nel quale non è sbagliato riconoscere una sorta di figlio illegittimo di Rino Gaetano, ha dalla sua fascino naïf e intrigante inconsapevolezza, e il suo esordio Canzoni da spiaggia deturpata – perfezionamento, complice il guru Giorgio Canali, di un grezzo demo che non aveva mancato di destare stupita curiosità – è opera di spessore e impatto. È però arduo, pur con tutta la simpatia e la buona volontà possibili, affermare che sia nata una stella destinata a brillare per chissà quanto: se Vasco non si evolverà in termini di stile e approccio, il suo destino sarà quello di annoiare già con il secondo album (l’ambiente, si sa, è maledettamente volubile), e se al contrario lo farà il rischio più concreto è quello di una “normalizzazione” che soffocherebbe i suoi requisiti più personali e interessanti; un po’ come accaduto a Bugo, che dopo la fiammata iniziale è finito relegato nell’affollato e pur gratificante limbo delle promesse non mantenute. C’è peraltro da sottolineare un dettaglio che rende il Brondi, che nell’intervista di qualche pagina più avanti dichiara non si sa quanto sinceramente “Penso che farò un altro disco perché ho già qualcosa di pronto e poi spero di potervi lasciare il vostro bel mondo autistico musicale e fare qualcos’altro”, una figura abbastanza anomala: ha solo ventiquattro anni, davvero pochi per un panorama nazionale nel quale, suonando musica cosiddetta alternativa, è piuttosto raro riuscire ad alzare la testa prima delle trenta primavere. Un ennesimo motivo di disappunto, al confronto con l’estero: per dirne solo una, il curriculum dell’inglese di Sheffield Alex Turner – classe 1986 – comprende già due album con gli Arctic Monkeys e uno con i Last Shadow Puppets. E la sua non è un’eccezione alla regola.

Un’annosa questione tutta italiana, quella degli emergenti ultratrentenni e della musica giovane che ha come alfieri più accreditati artisti spesso quarantenni. Un’esagerazione? Dati e date alla mano non ci pare proprio, specie per quanto riguarda i nomi di punta: Afterhours, Carmen Consoli, Vinicio Capossela, Marlene Kuntz, Casino Royale, Morgan, Cristina Donà, Ligabue, Modena City Ramblers, La Crus o Max Gazzè, per menzionare solo alcuni dei “nostri” che in misura maggiore o minore si sono lasciati alle spalle l’underground, hanno tutti avviato le carriere grossomodo tra la metà degli ‘80 e la metà dei ‘90, e l’evidenza dice che – se si parla di grande visibilità – non c’è stato, o quasi, alcun ricambio generazionale. I Subsonica? Sì, d’accordo, il loro primo album è del 1997, ma Samuel è del ‘72, Boosta del ‘74 e Max Casacci addirittura del ‘63. Insomma, dove sono i venticinquenni di reale successo venuti fuori dal nostro “giro” dall’alba del Terzo Millennio a oggi? Non ce ne sono, assolutamente, perché di sicuro la qualifica non si addice – né per età né tantomeno per riscontri di massa ottenuti – a gente pur molto brava come Pino Marino, Moltheni, Giardini di Mirò, Julie’s Haircut, Ardecore, Tetes de bois, Perturbazione. Alla fine, causa assenza di concorrenti, siamo costretti a indicare come più credibili, potenziali mattatori del domani Verdena e Baustelle: il che è reso piuttosto ridicolo dal fatto che entrambi hanno alle spalle quattro album (i tre quarti dei quali marchiati major), che i loro primi passi risalgono comunque alla seconda metà del decennio scorso e che l’anagrafe – impietosa – rivela come anni di nascita 1978 per Alberto Ferrari e 1973 per Francesco Bianconi. Perché il rock nazionale sia in media più maturo rispetto al resto del mondo rimane un mistero. Carenza di cultura della musica, di strutture idonee, di voglia di sbattersi e rischiare (magari anche per colpa di genitori poco inclini ad assecondare le velleità artistiche dei figli)? Probabilmente un po’ di tutto ciò, ma il brutto è che non si ravvisano segnali di cambiamento; giusto il settore hip hop ha mostrato accenni di reazione a un problema storico, ma nel pur deflagrante exploit di Mondo Marcio (con relativa ricerca e infruttuosi tentativi di lancio di suoi coetanei/epigoni azzardati da ogni etichetta) vediamo solo un episodio legato alla casualità e non i prodromi di una rivoluzione.

 

Qualcosa di decisamente atipico e sotto altri aspetti incoraggiante è stato invece l’ingaggio da parte della Universal internazionale (non la divisione local, insomma) di Davide “The Niro” Combusti. Che non è un ragazzino, dato che di anni ne ha ormai – tanto per cambiare – trenta, ma che con il suo folk-pop stilisticamente associabile tanto a Jeff Buckley quanto a Nick Drake ha saputo stroncare ogni (giustificato) pregiudizio dei discografici britannici e americani verso gli italiani che compongono e cantano in inglese. Il suo primo album omonimo, edito da pochi mesi a seguire un ep concepito come biglietto da visita, sta a quanto pare per conoscere l’onore dell’uscita su scala mondiale; e anche se l’ipotesi di chissà quali risultati appare francamente troppo ottimistica, il fatto che Davide sia stato ritenuto non solo capace ma soprattutto credibile è già un premio da non sottovalutare, alle sue qualità di artista intenso ed eclettico e alla caparbietà con la quale ha inseguito – vivendo su MySpace, aprendo i concerti di molti colleghi stranieri di passaggio per la sua Roma e all’occorrenza prendendo aerei per gli Stati Uniti e Londra – quello che a chiunque, meno che a lui, sembrava un’irraggiungibile chimera. Unicamente alla Penisola, se non altro a causa dell’idioma scelto per i testi, punta invece un altro solista “nascosto” dietro un nome da band (che stia diventando una moda?), Giuseppe Peveri in arte Dente. Nato a Fidenza, trentaduenne giusto per non smentire la solita regola, ha alle spalle una notevole esperienza come chitarrista (una decina d’anni e due dischi con La Spina) più due album – oltre a un EP di inediti scaricabile gratuitamente – prodotti nell’arco di appena un paio d’anni dalla indie Jestrai; per lui, estroso interprete di uno stile in cui convivono sobria classicità alla De Gregori/Battisti e deviazioni verso il surreale, ben sottolineate dai testi intonati con voce duttile e accattivante, si è registrato un certo interesse sia in ambito alternativo che a livello di discografia major. Più che il genio assoluto dipinto da taluni, Dente ci dà comunque l’idea di un (abile) artigiano guidato dall’intuito e non dal calcolo, a suo agio in una dimensione espressiva all’insegna di una confidenzialità non esageratamente intimista: difficile immaginarlo nei panni del trascinatore di folle, dunque, o alle prese con arrangiamenti troppo ricchi che snaturerebbero la misurata eleganza delle sue canzoni, e quasi quasi meglio augurarsi – lui dissentirà, ma pazienza – che resti un cult-hero, un prezioso segreto riposto tra le pieghe di un underground che una volta divenuto overground fa in fretta a deludere.

Logica vorrebbe che a questo punto si tirassero un po’ i fili dei vari elementi messi in campo, quantomeno provando a rispondere alla domanda proposta dal titolo: un’impresa, questa, ingrata e destinata a fallire, perché l’enorme, destabilizzante confusione tecnologica, produttiva e di valori non favorisce l’orientamento. In altri giorni più leggendari e gloriosi degli attuali, per conoscere dove la strada ci avrebbe portato sarebbe stato sufficiente analizzare le lezioni delle personalità più carismatiche, ma tra i volti “nuovi” degli ultimi anni non si scorgono autentici illuminati da seguire, e le eventuali folgorazioni sulla via di Damasco hanno ottime probabilità di rivelarsi fuochi di paglia o trucchi da illusionista. Ci piacerebbe scoprire in un giovane, solo per fare qualche esempio, l’equivalente mutatis mutandisdel naturale istrionismo di Piero Pelù, della caustica teatralità di Giovanni Lindo Ferretti, della fierezza barricadera di Marino Severini, della sfrontata poetica metropolitana di Manuel Agnelli. Ma forse di eroi nel vento nessuno sente ancora bisogno, Jurij ha finito le munizioni e le speranze, Kowalsky è rimasto inchiodato alla sua croce… e un po’ tutti ci siamo stancati di cercare, nel buio che – sì – ci fa paura, quello che non c’è.
Tratto da Il Mucchio Selvaggio n.648/649 del luglio/agosto 2008

Torna anche questa settimana “Schegge Indipendenti”, gli articoli storici sulla Musica Italiana di Federico Guglielmi: “Dove va il rock italiano?” was last modified: febbraio 13th, 2019 by Giordano SanGiorgi
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